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“Rapita per i miei tatuaggi”. La storia di Evelyn e delle donne del Triangolo del Norte

Il giorno che mi hanno deportato in Honduras è iniziato un incubo, a causa dei miei tatuaggi. Li avevo fatti negli Stati Uniti ma in centro America infastidivano i pandilleros”. Evelyn ha 27 anni ed ora che ha ottenuto la protezione complementare in Messico (una protezione prevista per chi non può tornare nel proprio Paese), con l’assistenza dell’Unhcr, vuole raccontare come la violenza delle maras – i gruppi armati legati al narcotraffico e alla criminalità – possa essere arbitraria e non lasciare altra possibilità che la fuga.

4df760516Ci parla da una fattoria messicana, la giornata di lavoro deve ancora iniziare, lei lavorerà ma senza esagerare perché è incinta della terza figlia. Evelyn è partita per gli Stati Uniti giovanissima e vi è rimasta dieci anni, un lungo periodo di vita clandestina in cui si guadagnava da vivere tra ristoranti e fattorie. Ed è in territorio Usa che si è fatta numerosi tatuaggi perché le piacevano e perché lì era la moda: fiori colorati sulle spalle e sui fianchi e i nomi delle sue bambine. Ma un giorno una collega la denuncia, sa che Evelyn non ha i documenti in regola e le fa pagare una lite con una telefonata alla polizia che la porterà in un centro di detenzione per migranti. “Non saprei dire quanto ci sono rimasta, mi hanno liberato perché avevo una bambina a carico” racconta Evelyn. Poi alla scarcerazione è seguito la deportazione in Honduras, il Paese dove era nata. L’Honduras è al primo posto, nel mondo, per il numero di omicidi: 57,3 persone ogni 100mila abitanti muoiono di morte violenta. La media nel resto del pianeta è 6,2. La ragazza era ospite della sorella a San Pedro Sula, non lontano dal confine guatemalteco, ma dopo soli cinque giorni è stata rapita. “Ero in un negozio, sono arrivati due uomini, mi hanno sollevato e caricato su una macchina, all’inizio non capivo, mi tempestavano di domande sui miei tatuaggi”. Le maras del Centro America – le più importanti sono la Pandilla Barrio 18 e la Mara Savatrucha MS 13 – usano i tatuaggi come segno distintivo e di appartenenza, ogni disegno ha un significato legato all’iniziazione o alle attività criminali e i capi possono tatuarsi anche il volto. “I miei tatuaggi li disorientavano, alcuni avevano colori appartenenti a maras nemiche, ad un certo punto hanno pensato che fossi la donna di più capi allo stesso momento”. Durante il sequestro Evelyn ha subito diverse forme di violenza che non vuole ricordare, “continuavano a chiedermi il significato dei miei tatuaggi e mi ripetevano: ‘possibile che nessuno ti abbia spiegato che non puoi avere questi colori insieme?’”. Poi è stata liberata: “non so perché, se io li abbia convinti delle mia totale estraneità da quel mondo, se lo abbia voluto Dio o se li ho impietositi parlandogli delle mie bambine”.

La storia di Evelyn racconta la fuga che sempre più donne centroamericane affrontano per sottrarsi alla violenza: nel 2015 le organizzazioni stimano quasi 76.000 deportazioni tra uomini, donne e minori in Honduras, 50.000 donne se si prendono in considerazione i tre paesi del “Triangolo del Norte”. Da Salvador, Guatemale e Honduras infatti, le domande di asilo verso gli Stati Uniti nel 2014 hanno oltrepassato le 40.000 ma la protezione viene chiesta anche in Messico e nei Paesi vicini: dal 2008 ad oggi il numero di richieste nei Paesi confinanti si è moltiplicato per tredici. “Women on the run”, un report a cura dell’Unhcr, riporta le esperienze delle donne in fuga, la loro sfiducia nelle forze dell’ordine, le minacce che le seguono anche se cambiano provincia di residenza e la violenza fisica e psicologica. Sono spesso le stesse maras a imporre la scelta: o la morte o la fuga e così nel giro di poche ore si scompare spesso insieme ai propri bambini. Si diventa l’obiettivo dei pandilleros per ragioni diverse: una donna può essere desiderata da uno dei componenti, i giovanissimi vengono scelti come reclute, informatori o tuttofare a partire dai sei anni. E se non vogliono unirsi vivranno costantemente minacciati. Come accade ai negozianti, agli autisti di autobus e a chiunque abbia un’attività, la pandilla reclama la “cuota”, il pizzo, e se non si paga si viene perseguitati, spesso i propri cari vengono uccisi come forma di punizione. La “tassa di guerra” è un’estorisione che colpisce tutti: le donne che vendono tortillas di mais per strada, i tassisti e chi ha parenti negli Stati Uniti che inviano denaro a casa, le maras lo sanno e pretendono la loro parte.

Evelyn sta avviando la procedura per ricongiungersi con la sua prima figlia che vive ancora in Honduras e conclude il suo racconto con un appello: “Cercate aiuto, nei rifugi vicino ai confini ci sono cartelli con nomi di associazioni e numeri di telefono, chiamate e non rimante in silenzio perché uscire da quell’inferno ed essere protette è un vostro diritto”.

Pubblicato il 24 maggio su Repubblica.it

 

Amicizia (su Facebook) con un personaggio letterario

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(Foto dal profilo Facebook di Chirù Casti)

Chirù Casti ha accettato la tua richiesta di amicizia.Ora siete amici su Facebook, lui è un musicista diciottenne che vive a Cagliari ma anche un personaggio letterario. In altre parole non esiste eppure è lì, oltre lo schermo e nelle pagine di un libro.

Quando Michela Murgia, scrittrice sarda quarantatrenne, ha aperto il profilo Facebook – ma anche Tumblr e un account Spreaker per la musica – per uno dei personaggi di Chirù, il suo ultimo libro edito da Einaudi, ha deciso di fare un esperimento.

“Più che una terza dimensione della letteratura – spiega Murgia – è un controviale della narrazione perché Chirù nel libro non ha voce, è solo descritto dall’altro personaggio, un attrice che ha vent’anni più di lui”. Mentre su Facebook il musicista racconta la sua vita ed interagisce. Ed ha anche un volto. I capelli scompigliati e una pigra barbetta appartengono a un attore che ha aperto alla scrittrice il suo archivio fotografico. Oltre seimila persone seguono un personaggio inventato, così si qualifica lui stesso, e quotidianamente interagiscono con like, commenti e messaggi. “Il pubblico è quello dei miei lettori, tra i 24 e i 55 anni, perlopiù donne. Sono lettori forti che cercano un prequel o un sequel” spiega Murgia paragonando la timeline di Facebook ad uno story board aperto al suggerimento dei lettori. Chirù infatti è orchestrato dall’autrice ma è capace di deviare lì dove lo porta un lettore o una lettrice capaci di scardinarne l’azione.

I social network e la letteratura si sfiorano in quelli che al momento sono ancora esperimenti. Un incontro indagato da Michela Mancini, studiosa che si occupa di questi temi ed ha insegnato all’Università di Siena. “La letteratura è anche documentazione di un’epoca e per questo vi ritroviamo i social network, non solo nei libri ma anche nei film” spiega Mancini che all’argomento ha consacrato il saggio I Social Network in letteratura e nelle arti. Usi e costumi del terzo millennio ( in «Educational Reflective Practices», Anno 3, n. 1 (2013), pp. 27-37). Il noir su questo è all’avanguardia, nel genere i social sono diventati sempre più agenti della narrazione. Internet consente una presenza e uno scambio in assenza, si è lontani ma si comunica e la trama può giocare su questo spazio terzo fatto solo di parole o di immagini dalla webcam. Uno dei primi testi a sperimentarne la potenzialità è stato Vie di fuga (Dino Audino, 2011) di Eugenia Romanelli; conversazione Skype e ricerche su Facebook giocano un ruolo chiave nella vicenda.

E se lo spazio dei social, della condivisione, il controviale di cui parla Michela Murgia, venisse occupato dallo scrittore a viso aperto? Lo ha fatto Joshua Cohen. Lui, temerario, ha scritto un libro in cinque giorni in diretta su internet; gli utenti potevano regalargli un cuore per esprimere il loro gradimento ma anche commentare leggendo man mano l’avanzamento dell’opera. Forse c’è chi inorridisce solo all’idea ma un seminterrato di Brooklyn, quello di Coehn, un volto illuminato dalla fredda luce dello schermo e una sigaretta penzolante dalle labbra potrebbe essere l’immagine del nuov scrittore maledetto. Coehn lo ha ammesso: “E’ stata una specie di tortura ma anche un esercizio per ridimensionare l’ego e sconfiggere la paura del confronto”. E tra i followers letterari ce n’era persino uno che si fingeva lo scrittore. “Sono io Joshua Cohen”. “Bugiardo, sono io”. “No io”. A raccontarlo a Balzac o Zola non ci crederebbero.

E ancora c’è la twittettatura, un genere a tutti gli effetti sul quale hanno fatto eserciozio anche scrittici affermate come Jennifer Egan con La scatola nera (Minimum Fax). Quale sarà il futuro dell’interazione tra social e letteratura? Difficile rispondere. Quel che è certo è che ci sarà e a scriverlo saranno i Millenials, sempre loro, aggiustando i contorni di nuovi generi da sfogliare o scrollare. Già lo fanno, in parte, con le Fan Fiction: vere e proprie storie firmate dai fan per ampliare un personaggio, approfondirne uno secondario o riportarne in vita qualcuno. Il Trono di Spade ne è un esempio e chissà se George Raymond Richard Martin ogni tanto va a curiosare nei forum per uno spunto o per pura curiosità.

Centillinare le pagine per non lasciar andare via quel personaggio, è capitato a tutti. I più fortunati si sono innamorati di personaggi seriali che poi facevano di nuovo capolino al libro successivo, spesso sulle tracce di un nuovo giallo. Fabio Stassi, scrittore, ha addirittura deciso di ridare voce a quelli storici in Il libro dei personaggi letterari (Minimum Fax), da Dona Flor a Zazie, Aureliano Buendìa fino ad Harry Potter. Le possibilità di un testo sono infinite, dilemma o stimolo – a seconda del punto di vista – già messo in pagina da Italo Calvino nel suo Se una notte di inverno un viaggiatore. Lo ricorda Michela Murgia che allontana la visione “cupa” di chi vede nei social il male del secolo: “Le storie sopravvivono a tutto, prenderanno altre forme magari, si allontaneranno dalla carta. Ma non importa perché non la carta ad essere sacra, lo è la narrazione, un’azione che solo l’uomo compie, solo noi ci raccontiamo”.

Pubblicato su Rsera giovedì 26 novembre

I guerriglieri contadini di Nuevo Horizonte

Nuevo Horizonte è una comunità fondata e gestita da ex guerriglieri, un territorio di 900 ettari nella regione del Péten in Guatemala. Per trentasei anni l’orizzonte di questi uomini e donne è stato la guerriglia. Armati, nella giungla, hanno combattuto una delle guerre civili più sanguinose del Centro America. Poi, dismessi i fucili hanno deciso di continuare a vivere insieme, sempre lottando anche se senza armi, costruendo, appunto, un nuovo orizzonte e una socialità diversa. Avendo vissuto condividendo una causa per la quale erano disposti a morire, avendo perso la famiglia, i guerriglieri non potevano che immaginare un futuro insieme; una comunità organizzata secondo gli stessi ideali di resistenza ed uguaglianza che animavano la lotta armata. Un’uguaglianza che si legge anche nella quotidianità della donne nella comunità: sono emancipate e rivestono ruoli importanti proprio come quando combattevano, quando il loro apporto alla lotta era fondamentale come quello di un uomo.

le foto sono di Lorenzo Monacelli http://www.lorenzomonacelli.com

le foto sono di Lorenzo Monacelli http://www.lorenzomonacelli.com

“Oggi mi diverto a farmi chiamare comandante lemonero anziché comandante guerrillero” dice Fernandez, settant’anni, che un tempo era un alto grado delle FAR, le Fuerzas Armadas Rebeldes. Fernandez ha i capelli arruffati e appena brizzolati, il Parkinson gli spezza le parole ma le recupera sempre per non interrompere il racconto. Riesce nonostante la mano che trema a sbucciare perfettamente, con un machete, un ananas e una canna da zucchero.

All’inizio Nuevo Horizonte era un gruppo di 127 ex-guerrilleros, dopo gli accordi di pace del 1996 si unirono per comprare un terreno (che ancora stanno pagando). Era una steppa arida difficilmente coltivabile. Un paio di scarpe rotte e l’abito che avevano indosso erano i beni degli ex guerriglieri che volevano diventare – o spesso tornare – contadini. Dormivano in tende e capanne di fortuna lavorando per i proprietari terrieri dei campi vicini che li ritenevano comunisti, terroristi, ladri, delinquenti e assassini. “Dovevamo dimostrare al mondo il contrario” dice Fernandez. “Oggi a Nuevo Horizonte vivono circa cinquecento persone, in centoventi famiglie” spiega Eugenia Pietrogrande referente in loco per Amka, una Onlus romana che opera in Guatemala dal 2009. Racconta che c’è un ufficio comunitario, case, campi, l’internet point, un centro di turismo solidale, un allevamento di vacche, una piscicultura e una scuola popolare. “Sono tutti progetti comunitari quindi il guadagno viene rinvestito nella comunità – spiega – la terra legalmente non appartiene a nessuna persona fisica ma alla cooperativa. Non c’è proprietà privata, anche le case sono di utilizzo comunitario”.

Amka aiuta Nuevo Horizonte attraverso il supporto tecnico ed economico a progetti comunitari di salute, educazione, attività produttive, turismo solidale ed empowerment delle donne. Al momento della fondazion, la disciplina della lotta armata venne applicata alla coltivazione e alla vita comune. La tenacia e la solidarietà sperimentate nella giungla fanno sì che il gruppo prosegua unito; mais, fagioli, alberi da frutta, per cominciare e sostentarsi. Mentre una parte di terra veniva “riforestata” quasi in segno di gratitudine e per rispetto di quegli alberi che li avevano accolti e protetti durante la guerra civile. “Mai avrei immaginato di diventare un guerrigliero, non sapevo cosa significassero parole come socialismo, comunismo o rivoluzione” prosegue Fernandez. Da bambino ha lasciato la scuola, una decisione che ricorda come il suo primo atto di diserzione.FLM_7119

Una famiglia di otto fratelli e una gioventù passata a lavorare nei campi. Era il 1979 quando Fernandez entrò in contatto con la teologia della liberazione, una corrente religiosa progressista; “vennero dieci sacerdoti spagnoli per un progetto di sviluppo, organizzavano vari corsi dalle tecniche agricole alla carpenteria” spiega il comandante. Ma l’insegnamento più importante era lo spirito collettivo, nella vita e nel lavoro. Fondarono una comunità, c’era la libertà di culto ma si andava affermando una repressione sempre più forte; erano gli anni in cui gli Stati Uniti inviavano forze armate speciali, i cosiddetti berretti verdi, contro ogni forma di insurrezione. Anche i movimenti religiosi meno conservatori erano bollati come comunisti e dunque perseguitati.

 “Una volta ho mostrato ai militari la Costituzione, l’articolo sulla libertà di culto, l’hanno stracciata dicendo ‘Esta mierda non existe, non vale nada’ e ridussero in pezzi anche i miei documenti d’identità” ricorda Fernandez. Molti civili erano armati e chiamati alla leva, così all’inizio degli anni ottanta in molti entrarono in clandestinità per organizzare la resistenza. “Non c’era molta scelta: o la morte o la guerriglia” spiega Fernandez.

Fernandez si occupa dei limoni, ha un figlio di venti anni che studia agraria e prosegue l’attività politica. Ha anche scritto un piccolo manuale che si intitola Algunos aspectos politicos de la militancia revolucionaria. “E’ molto utilizzato” spiega Rony, anche lui di Nuevo Horizonte, esperto conoscitore d’ogni pianta e animale della giungla dove ha vissuto per quasi venti anni. Adesso Fernandez sta scrivendo un vero e proprio libro ma è appena all’inizio. Si dice tranquillo e a sentir raccontare la sua quotidianità durante la guerriglia si capisce il senso di una pace ritrovata. D’altronde è un uomo che è morto e risorto nel vero senso della parola.FLM_7294

“Durante i diciassette anni nelle FAR non ho mai visto la mia famiglia. Per ragioni di sicurezza avevo cambiato nome, con un nome di battaglia – racconta – dopo qualche tempo dissero ai miei cari che mi avevano ucciso, tutto il villaggio passò nove giorni a lutto, dopo un anno celebrarono il mio primo anniversario di morte. Dopo gli accordi di pace, nel 1996, tornai a sorpresa. A mia madre quasi venne un infarto, mio fratello mi ha abbracciò e mi chiese: sei di questa vita o sei dell’altra?”.

_MG_0514Eugenia, che per Amka si occupa anche di accogliere i giovani volontari che arrivano ogni estate dall’Italia, racconta di uno dei progetti attivi; si chiama Dejando Huellas, che significa lasciando orme. Si tratta di un gruppo di nove donne che durante la guerriglia avevano grandi responsabilità; dalla logistica, alla difesa, fino all’infermeria e al comando. Riposte le armi erano profondamente emancipate ed autonome, “molto più auto-sufficienti e capaci rispetto a quanto la società tradizionale guatemalteca permette” dice Eugenia “qui per quattro anni consecutivi una donna è stata presidente della giunta direttiva di Nuevo Horizonte e non è raro vedere padri cullare i propri figli, lavare i piatti o preparare la comida”.

Dejando Huellas lavora da anni con le donne di diverse comunità indigene del Petén; cerca di incoraggiarle a organizzarsi e ad avviare attività imprenditoriali.

Il modello Nuevo Horizonte funziona tanto da essere diventato un modello per altre comunità svantaggiate; i “pionieri” della comunità vanno in giro per esportare la loro idea, aiutano i contadini indigeni a conoscere i loro diritti, organizzano corsi e creano una rete di contatti che ha già realizzato degli orti comuni.

Nuevo Horizonte è anche un punto di riferimento politico per le altre comunità. Quest’estate è arrivata una telefonata perché quattro ragazzi erano stati uccisi a Semococh, nel Municipio Chisec. “E’ stata la Polizia Nazionale” afferma Jorge Mario raggiunto al telefono dalle persone di Nuevo Horizonte. “Sono arrivati circa mille poliziotti per eseguire tre ordini di cattura, inclusa quello della signora Ana del Carmen del Cid, accusata di far parte del CODECA (organizzazione campesina e chiede la nazionalizzazione dell’energia elettrica)”. La signora è stata portata via senza un regolare mandato e sua figlia, minorenne, sarebbe stata malmenata. La comunità ha cercato di ostacolare il fermo e la reazione è stata violenta, a colpi di fucile.FLM_7550

La fine della guerra civile e gli accordi di pace non hanno reso il Guatemala un paese giusto, chi vive a Nuevo Horizonte lo sa bene. Fernandez dice che lui continua a lottare e a resistere però ha cambiato il metodo. Tra le mani gira e rigira un limone e dice che la comunità funziona perché “siamo uniti dallo stesso amore per la rivoluzione, dal senso della giustizia e dalla solidarietà”.

pubblicato il 4 novembre su http://quotidiano.repubblica.it/rsera/

Malala il Nobel che non piace al Pakistan

imagesAll’indomani del premio Nobel per la pace assegnato a Malala Yousafzai, la ragazzina simbolo della lotta per il diritto allo studio, il suo paese, il Pakistan, non reagisce solo con complimenti e orgoglio. Shaista Aziz raccoglie, sul Guardian, i commenti di chi non crede fino in fondo alla favola della paladina venuta dal nulla, scampata per un soffio al feroce attentato mentre andava a scuola. La giornalista inglese trascrive alcuni dei messaggi che ha ricevuto dopo la proclamazione del Nobel, e non si tratta di voci provenienti da un Pakistan estremista. “Mi auguro che il mondo la smetta di parlare di questa ragazza. Ci sono tante Malala in Pakistan e in tutto il mondo, perché gli americani e gli inglesi non ne parlano?” scrivono alla Aziz. Di molte altre alunne che hanno rischiato la vita non c’è notizia e il Paese ha molti altri problemi, non solo quello dell’istruzione, ribattono nei loro commenti gli interlocutori di Aziz.  Senza arrivare all’eccesso del complotto (il sito islamico Crescent International, arriva a supporre una messa in scena partita direttamente da Washington) i commenti restituiscono l’ambivalenza del personaggio. Malala è un simbolo occidentale; sarebbe l’immagine del Pakistan che l’Occidente vorrebbe, la promessa di una società più moderata e non attraversata dal fondamentalismo come è nella realtà.

Tariq Khattack, direttore del Pakistan Observer, in un’intervista alla Bbc ha condannato il premio spiegando che “si tratta di una decisione politica e di una cospirazione. Lei è una ragazza normale, non ha nulla di speciale ma vende quello che l’Occidente vuole comprare”.

“Prendiamo penne e quaderni perché queste sono le nostre armi” è il motto di Malala che dopo essere stata accolta e curata in Inghilterra è volata fino alla Casa Bianca e alle Nazioni Unite. Il suo è un messaggio semplice che non mette in dubbio nulla perché nessuno, da questa parte del mondo, è contrario all’istruzione delle bambine. Allora “perché Malala non parla mai dei droni che uccidono accidentalmente i bambini o dell’intervento Usa in Afghanistan che ha destabilizzato l’intera regione”, si chiedono gli scettici. Fahad, abitante di Rawalpindi, in una video intervista al sito francese Lepopulaire.fr dice: “Ci sono tante persone che lavorano per la pace nel nostro paese ma nessuno le nomina. Credo che Malala sia stata messa avanti a tutti gli altri perché è contro l’Islam, contro le tradizioni del Pakistan. Per questo non merita questo premio.”

Se l’anno scorso, quando già Malala era data tra le favorite al premio fondato dall’inventore della dinamite, i fondamentalisti avevano tirato un sospiro di sollievo per la mancata nomina, quest’anno sono passati alle minacce. “Personaggi come Malala dovrebbero sapere che non siamo scoraggiati dalla propaganda (degli infedeli, ndr). Abbiamo preparato coltelli affilati e lucenti per i nemici dell’Islam”, ha detto su Twitter il portavoce del gruppo, Ehsanullah Ehsan, un gruppo scissionista dei talebani pakistani. La storia di Malala inizia prima dell’attentato dell’ottobre 2012, quando i talebani salirono sull’autobus diretto a scuola, e chiesero: “Chi è Malala?”. Poi le spararono in testa. Il padre Ziauddin Yousafzai è un militante anti talebani e gestisce alcune scuole per bambine nella valle dello Swat, è stato lui a spingere la figlia a scrivere un diario per la Bbc sull’esperienza di una bambina a scuola ai tempi dei talebani. Malala dal 2009 rilasciava interviste e partecipava ad eventi: era già eroina e martire dei diritti.

Questo articolo è stato pubblicato sul Fatto Quotidiano sabato 11 ottobre

Barcolana, tutta la vela che c’è

StartLa leggenda vuole che già nel ‘700 i pescatori triestini tornassero in porto correndo tra le onde, facendo a gara a chi arrivava prima. Una competizione dettata dalla necessità: chi primo arriva più pesce vende. Secoli dopo quello stesso golfo è diventato lo scenario della regata più affollata d’Europa. Una gara tra scafi senza regole complesse a parte quella di avere una barca a vela. O di essere così bravi, o simpatici, da riuscire a trovare, anche all’ultimo, un imbarco. Grande o piccola, in legno o in carbonio, veloce o lentissima non importa: “basta che galleggi”, è questo il motto della Barcolana, regata arrivata alla sua quarantaseiesima edizione. E’ l’appuntamento velico più popolare d’Italia. Tra le oltre duemila barche che partecipano, con un equipaggio che si aggira intorno alle 25.000 persone, c’è chi ricorda quasi tutte le tappe della storica regata come Commodoro Giorgio Brezich. Presente dalla seconda edizione della Coppa d’autunno, l’altro nome della regata, le ha viste tutte ed ha anche vinto più di una volta. Le sue vittorie più belle sono forse quelle a bordo del Nibbio uno scafo del 1923 ancora in splendida forma che apparteneva a Brunetto Rossetti, memoria storica del mare, a metà tra il pittore e il marinaio. “La Barcolana è una vera e propria ammucchiata” racconta “è una giornata in mare, come una scampagnata: alcuni competono seriamente, altri suonano, cantano e bevono a bordo”. Uno degli avversari del Commodore Brezich fu Sergio Morin, calciatore velista che si divideva tra l’Inter, il Napoli e il mare. Barcolana Classic - Coppa ProsettoLe storie della barcolana si tramandano tra i pontili dove quotidianamente si pratica una vela meno scintillante ed esibita di quella di Porto Cervo o della Costa Azzurra. Sulla linea di partenza che va dal Faro della vittoria al Castello di miramare – così affollata da vantare anche un record in collisioni e danni – ci sono passati tutti, dai campioni dell’America’s Cup a volti meno noti. Si incontrano in mare, dove non c’è differenza di stazza, casta o religione e le regole sono decise solo dal vento (la famosa Bora triestina che non fa sconti a nessuno). Era il 1987 quando il Cicio, soprannominato Gesù bambino perché era l’unico tra i lavoratori del porto a non bestemmiare mai, sfidò con un barchino di otto metri il Moro di Venezia. Vinse il secondo che però peccò in fair play non dando al Cicio la precedenza che gli spettava. Solo scuse ufficiale e un giro al bar convinsero il Gesù del porto a non fare ricorso e a mandare a monte la vittoria del Moro.

StartArrivano da tutto il mondo per la Barcolana, sono industriali con l’hobby della vela o campioni come il neozelandese Russell Couts, hanno partecipato nomi storici della marineria come Cino Ricci ma le rotte più belle sono quelle piccole che sanno di ore in cantiere a riparare o costruire il proprio legno fedele. Lido Stabile faceva il camionista e in un incidente perse l’uso delle gambe. La moglie era disperata perché l’handicap non gli aveva fatto mollare il timone e usciva in mare con il suo cane come mozzo, anche se la barca si chiamava Gatto Romeo. Meno di otto metri di scafo e quel memorabile anno, il 1978, in cui quasi senza accorgersene, rimase incollato, in regata, ai campioni olimpici più blasonati.

Articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano giovedì 1 ottobre

Intervista a Andrea Mura, campione sardo degli oceani

_DSC8279Faccia segnata dal sole e dal vento, sorriso soddisfatto di chi ha consacrato la vita a una grande passione. Andrea Mura, il primo velista italiano a vincere la storica Route du Rhum, è già in Francia, al porto di Saint Malo, con la sua Vento di Sardegna, un Imoca 50, pronto a bissare il successo di quattro anni fa. Il velista sardo, classe 1964, il 2 novembre taglierà la linea di partenza della regata in solitaria che attraversa l’Atlantico fino a Point-au-Pitre, in Guadalupe, nata dall’idea di pubblicizzare il rum e messa in atto poi da Michel Etevenon, produttore di spumante. Ma ha già in mente il prossimo storico traguardo, la Vendée Globe 2016, il giro del mondo in solitaria e senza scalo.

Conosciuto dal grande pubblico come randista sul Moro di Venezia di Paul Cayard, nel 2013 ha trionfato alla mitica Ostar, una delle più dure regate transatlantiche in solitario di sempre. Non male per un velista che ha iniziato bambino navigando davanti al Poetto, ha investito tutti i suoi risparmi nel sogno di andare per mare e ancora oggi, ogni tanto, quand’è in mezzo all’oceano in burrasca gira video da postare su Youtube e si chiede: “Cosa ci faccio qui? Non potevo restarmene a casa, a cena con gli amici?”

Dopo la Route, quindi ci sarà un’altra regata. E non una gara qualunque…

La Vendée Globe è il sogno di ogni velista, sono ancora incredulo. È una sorta di consacrazione definitiva. E ho una barca nuova, un imoca 60. In pratica accedo al top level, come un pilota che arriva in Formula 1.

Il 2 novembre parte la Route du Rhum, competizione già vinta nel 2010. Qual è la sfida di questa nuova edizione?

Bacchettare i francesi! Sono convinti che il mondo della vela inizi e finisca in Francia. Ma non è vero e più volte si sono dovuti ricredere. Poi siamo granitici noi sardi. Abbiamo una tradizione, anche nautica, che in pochissimi possono vantare, mi vengono in mente i neozelandesi. Quattro anni fa c’erano più incognite, ora sono più consapevole. Sono un agonista puro e gareggio per dare il meglio a bordo di Vento di Sardegna, la mia barca, che ormai ha 15 anni ma che continua ancora a stupire per le prestazioni nonostante l’età!20101107105751(2)

Da dove arrivano i fondi per partecipare a competizioni così importanti?

Ho speso tutti ma proprio tutti i miei soldi per andare in barca. Ho messo sul baratro la mia vita economica e la mia vita in genere, avrei potuto finire in mutande a bussare alla porta dei miei come un quattordicenne, invece oggi il coraggio di assumere quel rischio mi ha ripagato. L’investimento iniziale è sempre il tuo poi, in alcuni casi, per fortuna, dei soldi arrivano. In questo caso sono stati la Regione Sardegna e un pool di sponsor privati a finanziare in parte la mia partecipazione alla regata.

Sul tuo scafo ci sono disegnati i quattro mori, il simbolo della Sardegna, la tua terra. Perché questa scelta?

Il mio progetto ha uno spirito sportivo e umano, io non ho nessun brand da pubblicizzare, anzi, se ne ho uno è solo quello della Sardegna. Quando penso allo sfruttamento della mia terra dai poligoni alle industrie inquinanti soffro in silenzio. Nel mio piccolo promuovo l’isola perché credo che la carta vincente sia il turismo ma è una conversione difficile che non avviene per mancanza di cultura.

_DSC8100Come era l’Andrea bambino che scopriva la vela, qual è il tuo primo ricordo “marino”?

Le uscite in barca al Poetto, la spiaggia di Cagliari. Mi manca quella spensieratezza, prendevo l’amichetto e lo scafo che mi capitava e mi buttavo in mare. Senza preoccupazioni. È quell’età bellissima in cui devi pensare solo a strappare un sei a scuola. Piano piano però con quelle uscite per gioco cominciavo a voler “spingere”, ad andare sempre più forte e a cercare la regolazione perfetta. Così è cresciuto uno spirito più agonista.

Nel libro in cui racconti la Route du Rhum del 2010 scrivi che sei “andato oltre la paura”. Cosa si prova in oceano? Cosa si pensa?

_AS79450Cosa ci faccio qui in mezzo? Non potevo restarmene a casa, a cena con gli amici? L’ ho pensato più di una volta in mezzo alla burrasca, al buio, solo tra onde e vento impetuoso. L’anno scorso durante la Ostar ho preso cinque burrasche furiose stile “Tempesta Perfetta”. Fuori c’erano sei gradi centigradi. Poi però le affronti con coraggio e intelligenza e una volta che ti lasci alle spalle una simile difficoltà smetti di avere paura. Adesso ho una paura diversa che è più un timore sportivo. È quello di rompere la barca o urtare una balena, insomma fare un danno irrecuperabile che ti fa perdere la regata. Però in mare ci sto bene perché lo conosco. Come un tuareg vive nel deserto io vivo tra le onde.

Articolo pubblicato mercoledì 1 ottobre su http://quotidiano.repubblica.it/edicola

Lo Splash Down ricorda la movida sul mare di Anzio. Storia della palafitta che guarda Ponza

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foto di Arianna Gravina

“Là un tempo era bello, quando si ballava…”

La signora bionda, del bar Maraschino, sulla Riviera Zanardelli di Anzio, indica una struttura abbandonata mentre serve un caffè dietro al bancone. É grande, bianca e ormai avvolta dalla ruggine.

La chiamano Splash Down o Ex veleria, nomi che raccontano la lunga storia di un edificio ormai chiuso da una recinzione, per tenere alla larga i curiosi, i fotografi con il fascino per la decadenza e i ragazzini che però ancora si arrampicano su quel tetto pericolante che guarda il mare. Apre i battenti, con il nome di Splash Down, nel 1969 ad opera di Angelo Lombardi “L’amico degli animali”, il primo divulgatore scientifico dell’era televisiva italiana. Quello che dopo essere stato cacciatore di belve in Somalia, aveva portato davanti agli occhi dei telespettatori gli animali di terre esotiche. Chi guardava il suo programma, magari da bambino, ricorda le celebri frasi “Buonasera amici dei miei amici” e il secco comando al suo aiutante di colore “Andalù portalo via” e sotto con un altro esemplare. Lombardi ne fece un posto a metà tra un acquario ed un museo. Erano gli anni splendenti della riviera di Anzio: quando quella a levante era per le seconde case dei romani in vacanza mentre a ponente c’erano i locali, i portodanzesi. Ma la vera custode della storia dello Splash Down è Elisabetta una bella signora bruna che prepara alici marinate e pasta allo scoglio, in un piccolo chiosco incastonato tra i cantieri nautici e le barche del porto. Colma la curiosità di chi non è del posto e esaudisce il desiderio di sentirsi narrare le vicende di quel relitto della terra ferma. “Io là dentro ci ho festeggiato il mio compleanno dei dieci anni”. Mentre parla indica le foto, un po’ sbiadite, attaccate accanto al bancone. Su una c’è anche una freccia e una scritta: “Questo è lo Splash Down”.P1030810

Poi quando quel posto è diventato un locale, si sono avvicendati diversi gestori. Alcuni lavoravano bene, la vista sul Circeo aiutava, ma altri hanno avuto problemi. “C’erano risse in continuazione. Anche una sparatoria mi sembra. E poi chiudevano e riaprivano poco dopo” racconta un signore con una tuta da lavoro e i capelli bianchi, indicato da due ragazzi alle prese con la riparazione della vetroresina di una vecchia barca. Perché è una storia lunga e c’è bisogno di qualcuno che l’abbia avuta sotto gli occhi per tanto tempo. Arrampicata su piloni di cemento ormai avvolti da alghe e crostacei, la struttura attira lo sguardo; alcuni si indignano perché rompe l’orizzonte, altri vi rivedono la vita che l’ha attraversata negli anni d’oro quando la riviera era affollata e con la stagione estiva mettevi da parte denaro sufficiente per tutti l’anno.

P1030801Nel film La Mazzetta del 1978 con Nino Manfredi, insieme ad Ugo Tognazzi, si riconosce l’interno dell’edificio, è un ristorante dove l’attore è alle prese con un enorme piatto di spaghetti al nero di seppia.

“Ci hanno girato tanti film” dice Elisabetta che adesso guarda lo Splash Down con un misto di tristezza e affetto. “Un giorno io e mio marito siamo andati a Follonica, là c’è una struttura molto simile. Siamo rimasti impressionati dalla somiglianza ma soprattutto ci siamo detti che i toscani erano riusciti a far funzionare un posto così particolare: è un hotel -ristorante”. Infatti loro ci hanno mangiato ed anche dormito, sentendosi probabilmente un po’ a casa.

Guardando bene tra l’intonaco scrostato e i rimasugli di infissi si legge ancora una scritta fatta alla bell’e meglio con un nastro: “Veleria e tappezzeria”. Quando l’edificio ha chiuso la parentesi con la movida da spiaggia, è stato adibito a laboratorio per le vele. Chi ci viveva però non pagava nessun affitto; aveva occupato abusivamente una casa che è il sogno d’ogni romantico. Con la famiglia aveva sistemato l’ala dell’edificio più vicina alla terraferma. E lì faceva il suo mestiere: il velaio. C’è chi dice che ci abbia abitato più di venti anni, chi non conserva un buon ricordo e preferisce non parlarne. E chi con una certa distanza afferma “Ah ma era campano non era di Anzio”.

Poi lo sgombero e un’indennità enorme da pagare e la veleria ha chiuso i battenti per sempre. Tra i forum di surfisti c’è ancora chi consiglia di portare le vele a riparare da Dino. “Sta proprio sul porto, la vedi subito perché è l’unica costruzione sull’acqua” si legge in un post un po’ datato.

Dopo lo sgombero la Regione ha recintato l’area, la Capitaneria di Porto ha emesso un’ordinanza che vieta la navigazione nelle acque circostanti. Ma l’ex veleria rimane lì. Indigna ma allo stesso tempo affascina. Forse Elisabetta ogni tanto ha fantasticato di spostare il suo chiosco tra quelle mura e farne un grande ristorante. Qualcun altro avrà pensato che sarebbe il posto perfetto per una scuola di vela su piccoli scafi, con quel vento che ad Anzio non manca mai.

Ma la salsedine e il tempo hanno reso l’immobile praticamente irrecuperabile. “Prima o poi dovranno demolire ma per il momento non ci sono i soldi” spiega Elisabetta. Così l’ex veleria aspetta. Ospita le scritte colorate dei writer o qualche audace “ti amo” scritto con la bomboletta. E guarda l’orizzonte, come la signora del Maraschino che facendo due conti con l’età potrebbe esserne la sorella maggiore. Entrambe guardano ad ovest dove ci sono Ponza e Palmarola, due isole dove nessuna delle due è mai stata e che si vedono solo nelle giornate di brutto tempo.

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Articolo pubblicato su http://quotidiano.repubblica.it/rsera

E’ il secondo articolo di una serie dedicata ai luoghi abbandonati che uscirà ogni giovedi su Rsera: il primo Archeologi delle rovine, i prossimi sull’ex manicomio di Collegno e le saline di Tarquinia

 

 

 

Archeologi delle rovine alla ricerca delle vite perdute

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L’azienda agricola sperimentale Sorighessa a Olmedo in provincia di Sassari – Davide Virdis

Sembrano riposare nelle città o essersi smarriti su qualche via poco battuta nelle campagne, sono monumenti o fabbriche, dove ferveva il lavoro oppure case, una volta abitate, e poi lasciate vuote in balia del tempo. Sono i luoghi abbandonati che tanto ci affascinano, regno dei muri scrostati, delle ostinate piccole piante cresciute tra le tegole, della ruggine, dei vetri rotti e del silenzio.

A incontrare questi luoghi non sono solo i curiosi, magari armati di reflex, o i bambini con il gusto per lo scavalcamento proibito; anche l’arte si è fermata a dedicargli una pennellata o uno scatto. “Siamo affascinati dai luoghi abbandonati perché rappresentano un tempo puro” spiega Marc Augé, l’antropologo francese che ha riflettuto sui non-luoghi, profondamente diversi dalle rovine perché caratterizzati dall’asetticità e dall’assenza di storia. Sono gli aeroporti, gli autogrill, i centri commerciali e tutti quei posti dove transitiamo smarrendo memoria e identità. Al contrario, “guardando le rovine non sapremo mai cosa rappresentavano per coloro che invece le vivevano quando ancora rovine non erano” prosegue Augé. A volte infatti cerchiamo di animare quegli stessi luoghi con la fantasia, popolandoli delle persone che un tempo li riempivano. L’etnologo riconduce l’interesse per la decadenza a “un sentimento di mancanza, che è essenziale nell’estetica: una consapevolezza del tempo che va oltre la storia”.

The chancel and crossing of Tintern Abbey - Turner

Tra gli artisti pionieri dell’amore per le vestigia spicca William Turner. Il pittore inglese prediligeva i soggetti che rimandano a un’idea di distruzione; dai naufragi alla serie di dipinti sul parlamento inglese distrutto da un incendio nel 1834.  The Chancel and Crossing of Tintern Abbey, Looking towards the East Window (1794) rappresenta le grandi arcate della prima abbazia cistercense del Galles, ricoperte di vegetazione. Due uomini passeggiano sotto le rovine: sono piccoli e insignificanti davanti al tempo che consuma le loro vite e gli edifici, anche quelli grandiosi, da loro costruiti. Il fascino discreto dei luoghi abbandonati è stato protagonista alla Tate Gallery londinese. Ruine Lust, titolo dell’esposizione che si può tradurre con “sete di rovina”, ha esplorato la rappresentazione di paesaggi ed edifici in rovina, dal 700 ad oggi. Le rovine diventano anche silenziose testimoni della storia. A raccogliere l’eredità di Constable, Turner e Piranesi (che rappresentava la magnificenza dell’Impero romano decaduto) sono stati numerosi artisti. L’attenzione si sposta sulle macerie all’indomani della Seconda Guerra Mondiale quando le città cambiano faccia dopo i bombardamenti. A Berlino ad esempio c’è un vero e proprio monumento alla rovina: la chiesa dell’imperatore Guglielmo, la Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche, che conserva e mostra la distruzione del conflitto. imperatore-guglielmoAccanto sorge una nuova e modernissima chiesa, che a molti tedeschi non piace: una giustapposizione del vecchio, semidistrutto, e del nuovo, ricostruito, che obbliga a riflettere. Il ricordo del genocidio e del trauma storico, diventa la caratteristica dell’arte della rovina dell’ultimo secolo. Le gemelle Jane e Louise Wilson, ad esempio, hanno messo al centro della loro opera i bunker e gli avamposti militari del Terzo Reich.

Alex Vicente, giornalista de El Pais, ha raccolto il parere di Brian Dillon, curatore della mostra Ruine Lust e fondatore della rivista Parkett: “Le rovine sono un promemoria della realtà universale del collasso e della putrefazione, come un avviso che arriva dal passato sul destino della nostra civiltà. È un ideale di bellezza che attrae proprio per i suoi difetti e le sue mancanze, un monumento ai caduti di guerre antiche o recenti, l’immagine precisa dell’eccesso economico e del declino industriale”. Dillon s’interessa ai luoghi abbandonati da anni e ne scrive anche sul blog Ruins of 20th Century.

Ruine Lust suggerisce che l’architettura che si fa detrito, la fabbrica dismessa e ogni luogo invaso da muffa e abbandono, siano l’immagine del fallimento, se non della civiltà intera, almeno dello stato del benessere. Jon Savage ha fotografato le periferie deserte di Londra est: le case popolari costruite ma non abitate sono il simbolo di una sconfitta ma anche della necessità di reinventare continuamente i luoghi, trasformandoli secondo bisogni e necessità.

Anche a Parigi, al Palais de Tokyo, sono arrivate le rovine (la mostra L’état du ciel è visibile fino a settembre). All’interno della vasta esposizione spicca l’opera dell’artista giapponese Hiroshi Sugimoto che con la serie Aujourd’hui le monde est mort riflette sull’umanità e su una crescita spesso cieca. Da più di dieci anni Sugimoto raccoglie oggetti di epoche e luoghi diversi e attraverso la giustapposizione di questi descrive un lascito desolante, una manciata di cose come simbolo della  squallida eredità della nostra società. “Greci, romani e inca hanno lasciato traccia del loro patrimonio nei templi. Mi chiedo cosa lasceremmo noi se la civiltà finisse domani” ha spiegato l’artista a El Pais.

Là dove la vita dell’uomo non passa più, l’occhio si ferma perché curioso di vederne le tracce e i detriti. Davide Virdis ha eletto i luoghi abbandonati a soggetto del proprio obiettivo fotografico. É un architetto sardo che però scatta foto quasi a tempo pieno. Con la serie Relitti ha indagato quella che definisce “un’umanità in cantiere”. Insieme a Paolo Chiozzi, antropologo visuale, ha portato in giro una mostra che immortala le tracce umane in interni in disuso: dalle fabbriche dismesse, ai bagni marini fino alle case coloniche. “Dopo un periodo di lavoro come fotografo d’interni ho in un certo senso reagito a tutta quell’artificialità”, spiega Virdis che ora vive a Firenze. “Ho fatto evadere la mia fotografia riportandola alla luce naturale, iniziando a fotografare i relitti: gli interni abbandonati che conservano una chiara traccia del passaggio umano”. Negli scatti di Virdis, infatti, ci sono materassi, cumuli di abiti ammassati in un’ex fabbrica di Prato, armadietti scardinati con ritagli di giornale e fotografie, scarpe spagliate e pulsantiere senza più mani a comandarle. Ne esce l’anima del luogo, probabilmente perché il segno di chi vi ha vissuto è ancora evidente, per quanto impolverato. Relitti ripartirà presto dalla Sardegna in giro per l’Italia e alla domanda sul perché le rovine affascinano il nostro occhio, il fotografo risponde: “É un po’ come essere un archeologo, scavalcare un muro violando i sigilli con la speranza di trovarvi un tesoro o almeno sentire la presenza di ciò che un tempo era”.

Articolo pubblicato su http://quotidiano.repubblica.it/rsera    il 14 agosto 2014

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Bagni Iride sul litorale di Platamona

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In alto la Ferriera sarda di Porto Torres, apre nel’61 e produce tondini di ferro, chiuderà 18 anni dopo. Sotto le Officine di rigenerazione della rotaia a Pontassieve

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Ex vetreria Savia a Empoli

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Capannone portuale nell’area di Porto Torres. Sotto l’ex cartiera di Arbatax

 

 

 

Foto di Davide Virdis, qui altri suoi lavori

 

 

 

Sampietrini e barricate la disobbedienza in mostra

14-07-22_Disobedient_Objects_610x260Striscioni, megafoni, spille, scudi a forma di libro, indumenti colorati – e quando si mette male un estintore – popolano le piazze delle proteste. Insieme ai corpi che sfilano, e che con la loro sola presenza, senza tanti orpelli, oppongono un “no”, ci sono gli oggetti che di quel dissenso diventano simbolo. “Disobedient Objects”, l’esposizione che ha aperto i battenti al Victoria and Albert Museum di Londra, li ha raccolti ed esposti nel tentativo di tracciare una sorta di “fenomenologia del sampietrino” e della piazza. “Si va a una manifestazione perché non si sa cosa succederà: l’imprevedibilità ne è una componente basilare” spiega Pierandrea Amato, Professore di filosofia teoretica all’Università di Messina e autore di La Rivolta (Cronopio edizioni). Forse proprio sull’effetto sorpresa hanno puntato gli attivisti dell’Eclettic Eletric Collective (che ora si chiama Tools for Action) di Berlino, quando nel 2012, hanno ideato dei cubi gonfiabili giganti, dei sampietrini morbidi in altre parole, da lanciare alle forze dell’ordine.

inflatable cobblestone at general strike 29.03.2012

“A quel punto la polizia ha dovuto capire cosa fare con quell’oggetto inaspettato, se lo avessero rilanciato in aria, avrebbero finito per giocare a volley con gli anarchici: qualcosa di completamente assurdo” ha spiegato Gavin Grindon, curatore della mostra, a Nico Hines, giornalista del The Daily Beast.

La mostra ha catalogato gli oggetti di movimenti noti e presenti nell’immaginario comune ma anche testimonianze di mobilitazioni minori. Si comincia dalle spillette contro l’apartheid, in sostegno di Nelson Mandela; un segno di riconoscimento che divenne virale quando iniziarono a produrle e indossarle anche in altri paesi, dall’Europa al Quebec. Ci sono anche delle pentole ammaccate, sono quelle che gli argentini portarono per le strade nel 2001 quando il crack economico portò al congelamento dei conti dei risparmiatori. Essenziali ed efficaci perché ognuno le aveva in casa e capaci di fare un gran rumore. La facile reperibilità gioca a favore della diffusione; i disegni in tessuto cuciti dalle donne cilene durante la dittatura di Pinochet ne sono l’esempio. Bastava qualche avanzo di stoffa, l’orlo abbondante di una gonna, per realizzare le immagini della storia di sangue che si stava compiendo. 6. Chilean Arpilleras wall hanging Dónde están nuestros hijos, Chile, Roberta Bacic's collection, Photo © Martin MelaughPoi le signore li vendevano o semplicemente li distribuivano come atto di denuncia. Scegliere un colore e farne l’emblema di una causa: oggi sono sufficienti due nastrini, uno rosso e uno bianco, per rendersi riconoscibili come No Tav. Arancione è il colore di Orange Alternative, movimento nato negli anni ’80 in Polonia, in opposizione all’autoritarismo comunista. Poiché gli assembramenti politici erano vietati, il movimento decise di indire una 2013GU4627manifestazione di nani con tanto di cappello arancione. Furono arrestati ma oggi a Breslavia la statua di un nano commemora quella giornata.

La mostra è gratuita e attirerà un gran numero di turisti estivi eppure qualcosa stona. Il simbolo ricorda le schede elettorali, le griffe e ogni idea che vuole rendersi immediatamente riconoscibile mentre spesso, i movimenti vogliono disorientare, stupire e diversificare. A dirlo meglio c’è il Professor Amato: “Simboli e parole d’ordine semplificano il reale per produrre un’identità, catalogarle quelli della lotta è un tentativo per catturare la ribellione nella macchina mediatica, legando questi simboli a una dimensione economica”. La mostra vende, guarda caso, borsellini a forma di bomba a mano e poster che spiegano come fabbricarsi una maschera anti gas, contro i lacrimogeni, in poche mosse. I movimenti, di ogni latitudine ed epoca, hanno cercato di rompere le abituali categorie di pensiero, mettendo un sasso sul cammino della storia nel tentativo – a volte romanticamente vano – di provocare una deviazione, un cambiamento, la rottura. Vederli in un museo suona come il tentativo di ricondurli a quella stessa ordinarietà che avevano cercato di rompere.

“Non è colpa di Che Guevara se milioni di magliette con la sua effige sono state vendute nel mondo” ragiona Amato “ma può anche darsi che la repressione si infili nelle maglie di questa estetica della sollevazione che identifica l’insorgenza con colori e simboli precisi”.

Chissà cosa penserebbero le Guerrilla Girls che ora nel museo ci sono finite e che all’alba degli anni ’90 lanciarono una protesta mascherandosi da scimmie contro il New York’s Museum of Modern Art, colpevole di penalizzare alcune categorie sociali – donne e neri – tra l’elenco degli artisti esposti.13. Guerrilla Girls, Image © George Lange

“La kefiah è stata a lungo un simbolo molto forte, talmente diffuso qualche decennio fa, da slegarsi dalla stessa solidarietà al popolo palestinese” dice Amato e, in effetti, quel lembo di cotone era stato eletto a “sciarpa” da un’ampia galassia di sinistra, dai movimenti, a chi credeva nei partiti, fino agli studenti. “Adesso è quasi scomparsa o quantomeno la su presenza è sensibilmente diminuita, eppure la causa palestinese è ampiamente sentita e sostenuta”. Non c’è una spiegazione certa; possiamo pensare che fosse legata ad Arafat, che sia passata di moda oppure riconoscere l’imprevedibilità dei movimenti e delle icone ad essi legate. Rimane il dubbio che i veri oggetti della disobbedienza siano quelli che la società ha difficoltà a spiegare e catalogare, quelli che nella mostra non sono presenti: “Penso al poetico e inquietante passamontagna del sub comandante Marcos” sottolinea il Professor Amato, quel lembo nero che rendeva tutti uguali e irriconoscibili.

9. Graffiti Writer (Robot for writing street graffiti),  Institute for Applied Autonomy, 1998, USA, Courtesy of Institute for Applied AutonomyCIS:C.37C-1972;CIS:C.37D-1972Disobedient Object spazia dalla tecnologia del Graffiti Writer, un robottino che si muove su rotelle scrivendo slogan lungo l’asfalto, al servizio da the per portare il dissenso nei salotti delle signore inglesi ideato dal Women’s Social and Political Union. E ancora le bustcards che sono cartoline, manifesti o enormi affissioni che spiegano come comportarsi nel caso si venga fermati dalle forze dell’ordine, una sorta di promemoria dei propri diritti, nella speranza che non siano calpestati.

La mostra offre la possibilità, alla fine tour, di riempire uno spazio vuoto, con la propria nuova idea di oggetto disobbediente. Che cosa inventeranno turisti e londinesi per sovvertire l’ordine? L’idea più geniale sembra arrivare dal passato e ancora non è passata di moda, è la barricata; nient’altro che un temporaneo blocco edificato con ciò che si trova per strada. E’ un oggetto effimero, fragile e che spesso dura molto poco. Heric Hazan in Barricata, storia di un oggetto rivoluzionario (Autrement edizioni) ne ha descritto la storia in Francia, dalle prime della Fronda del 1648, passando per quelle ottocentesche immortalate dalle parole di Victor Hugo per arrivare al maggio francese: barricate che bloccavano la strada ma aprivano una via nuova. “Catalogare e dare un ordine a ciò che dovrebbe sfuggire a qualsiasi cattura per sprigionare qualcosa che superi l’organizzazione stessa” è secondo il Professor Amato una contraddizione. Forse ha ragione ma dopo la visita al V&A Museum potreste, tutto sommato, imparare come si costruisce un lock on devices; dispositivo in metallo con cui incatenarsi ad alberi o ad altri manifestanti a formare una catena umana e in un modo o nell’altro resistere, come hanno fatto gli stessi inglesi per impedire la costruzione di un’autostrada.

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14. Book bloc, London, December 2010, Indymedia40. Book Bloc, Rome, November 2010, Courtest Vittorio Giannitelli  - SonarProject - RadioSonar.net

Articolo pubblicato su RSERA l’11 agosto 2014 http://quotidiano.repubblica.it/rsera

 

 

Bambini nel vento

IMG_2107 - CopiaLe cime vengono tirate a bordo, il molo lentamente si allontana e la prua punta dritta in mezzo al fanale verde e a quello rosso dell’uscita del porto. Da quel momento la terraferma tace e le giornate diventano onde, vento e sole. Nave Italia ha spiegato le sue vele, circumnaviga in questi giorni la penisola italiana, regalando la cura del mare ai suoi numerosi ospiti.

Con i suoi sessantuno metri di lunghezza, un elegante scafo blu e due imponenti alberi, Nave Italia accoglie ogni settimana un equipaggio diverso; dai ragazzi down a chi è affetto da malattie croniche, dalle donne che hanno attraversato il cancro fino agli studenti di Napoli che rischiano l’abbandono scolastico. I nodi, la cartografia, la regolazione delle vele, la caccia al tesoro fotografica per capire la nomenclatura della nave, oppure dei laboratori ad hoc, sono alcune delle attività organizzate a bordo.

“E’ un percorso di riconquista coraggioso – spiega Paolo Cornaglia Ferraris, direttore scientifico della Fondazione Tender to Nave Italia – perché esce dalla routine dell’assistenza territoriale delle Asl e del volontariato per prendere una direzione diversa”. La direzione è quella del vento che scompiglia i capelli e la quotidianità di chi vive un disagio, che sia questo una malattia o una difficoltà.  Ogni nave che si rispetti naviga grazie al suo equipaggio che deve essere collaborativo e rispettoso delle regole. Chi sale a bordo è inquadrato nei turni militari; c’è la corvée, lo stare al timone, le manovre alle vele. Lo spazio, per quanto confortevole, è piccolo e la poca privacy aiuta la socialità: “Si studia se stessi e si capiscono gli altri. Ciò avviene nella vita a bordo ma anche attraverso laboratori per costruire percorsi cognitivo comportamentali” spiega Cornaglia. E quando racconta la nascita della fondazione dice chiaramente che i fondatori gettarono il cuore oltre l’ostacolo, al di là del bompresso e giù tra le onde. Nel 2007 Nave Italia molla gli ormeggi me l’idea era venuta nel 2005 a Carlo Croce, attuale Presidente della Federazione Italiana Vela (Fiv) e dell’International Sailing Federation (Isaf) , con un passato da olimpionico. “Ha vissuto la competizione e conosce la capacità educativa del sacrificio e della sfida” prosegue Cornaglia. Sì perché tra scotte, drizze e raffiche improvvise ci si riscopre più coraggiosi. Ma non solo, il mare insegna anche l’umiltà: quando si è un puntino in mezzo al blu di acqua e aria, l’uomo si ridimensiona a piccola parte di una natura infinitamente più forte e imprevedibile. A bordo la prima regola è infatti la sicurezza, anche la Fiv ne fa, nei suoi corsi di vela per bambini a partire dai sei anni, un caposaldo: ogni movimento deve essere prudente, “una mano per te e una alla barca” si dice, per insegnare che sul traballante mare bisogna tenersi ben saldi. E la gerarchia ferrea è la diretta conseguenza della sicurezza: se il comandante urla e ordina come un tiranno è perché l’equipaggio deve rispondere come un meccanismo ben oliato che mai s’inceppa. “Nave Italia è stata uno sforzo congiunto, ha preso vita grazie alle donazioni di chi ci ha creduto. La Fincantieri ci sostiene per la manutenzione e l’attrezzatura, gliene siamo infinitamente grati e trattiamo lo scafo come un gioiellino!” sottolinea il direttore.CROCIERA DELLA NAVE ITALIA CON I RAGAZZI DELLA SCUOLA "DE FILIPPO/VICO" DI ARZANO (NA)

Il calendario della splendida goletta armata a brigantino è pieno. In questi giorni è imbarcato un gruppo di bambini epilettici. “Si tratta di forme gravi di epilessia, resistenti ai farmaci. Ma grazie all’efficienza della Marina possiamo accoglierli: i ragazzi dell’equipaggio della Marina sono fantastici, non fanno solo Mare Nostrum ma anche queste esperienze e sono capaci di un’umanità sconfinata” racconta Cornaglia. Se si verifica un incidente la velocità dei mezzi di intervento garantisce la sicurezza; proprio in questo gruppo di bambini c’era Kim, che è arrivata da Malta, ha avuto una crisi e si è ferita. “In meno di due ore era all’ospedale dove è arrivata in elicottero sempre assistita da un medico” spiega il direttore.

IMG_1997Ci sono circa cinquanta posti a bordo e “naturalmente il rapporto tra ospiti e assistenti varia di volta in volta a secondo delle esigenze, poi c’è il project manager, il capo progetto dell’ente e infermieri e medici a seconda della necessità” precisa il direttore scientifico. Si naviga nell’arcipelago della Maddalena, in quello toscano o in Costa Azzurra, a Messina, Catania e nello Ionio: “Solo in posti bellissimi insomma” chiosa Cornaglia. Dormono spesso in rada – e non sempre in porto come i navigatori della domenica – e tutti si fanno il bagno. “Alcuni ragazzi si tuffano direttamente dal bompresso, è come una prova di coraggio!”.

Una delle tante attività è stata l’inserimento dei ragazzi affidati ai Tribunali, e “alcuni di loro si sono appassionati e hanno intrapreso le professioni del mare” dice orgogliosamente il direttore. Oppure chi soffriva di psicosi o grave depressione, ha riscoperto il piacere della socialità. Anche i bambini leucemici hanno trovato spazio su Nave Italia “per recuperare almeno una parte d’infanzia dopo stanze sterili e ricoveri” e ancora un gruppo di autistici ad alto funzionamento “che hanno lavorato sullo sviluppo della socialità” prosegue Paolo Cornaglia, e l’elenco è lunghissimo.

Daniele Castignani invece ha portato in mare ragazzi con la sindrome di Down; alcuni di loro sono diventati marinai provetti. Uno dei progetti da lui seguiti è stato a bordo di La Poste, insieme all’associazione Velambiente, un’imbarcazione molto tecnica che ha partecipato a diverse competizioni. “Tra i molti ragazzi che ho incontrato ce ne sono alcuni che praticano tutt’ora la vela anche senza educatori specializzati” racconta. Con l’Associazione Italiana Persone Down (AIPD), nel 2012, Nave Italia deve essersi trasformata in una chiassosa babele galleggiante. “Abbiamo allestito un laboratorio viaggiante con ragazzi dal Venezuela, dall’Argentina, dalla Spagna e dall’Italia per svolgere un seminario sul lavoro” spiega Daniele. “Siamo partiti da Genova e arrivati a Civitavecchia, a dire il vero abbiamo un po’ scombinato le rigide regole della Marina – racconta con un sorriso -. La nave è diventata metafora di una piccola azienda”. Così mentre una parte del gruppo provvedeva alla manutenzione ordinaria dell’imbarcazione, gli altri ascoltavano il seminario sul lavoro.

3La crociera estiva del brigantino si concluderà a Trieste, in ottobre, con la Barcolana: una storica e partecipatissima competizione. Poi Nave Italia ridiscenderà l’Adriatico spinta dalla Bora dell’autunno e guidata dai giovani di Sta Italia, la Sailing Training Association che forma professionalità nautiche. Sfilerà lungo le coste e i porti dove sono rientrati i suoi ospiti che, c’è da scommetterci, rimettendo piede sulla terraferma, sul molo di sbarco, avranno portato con sé un po’ della leggerezza e della forza che contraddistingue ogni vento.

Pubblicato su RSera il 8 luglio 2014 http://quotidiano.repubblica.it/rsera/