Archeologi delle rovine alla ricerca delle vite perdute

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L’azienda agricola sperimentale Sorighessa a Olmedo in provincia di Sassari – Davide Virdis

Sembrano riposare nelle città o essersi smarriti su qualche via poco battuta nelle campagne, sono monumenti o fabbriche, dove ferveva il lavoro oppure case, una volta abitate, e poi lasciate vuote in balia del tempo. Sono i luoghi abbandonati che tanto ci affascinano, regno dei muri scrostati, delle ostinate piccole piante cresciute tra le tegole, della ruggine, dei vetri rotti e del silenzio.

A incontrare questi luoghi non sono solo i curiosi, magari armati di reflex, o i bambini con il gusto per lo scavalcamento proibito; anche l’arte si è fermata a dedicargli una pennellata o uno scatto. “Siamo affascinati dai luoghi abbandonati perché rappresentano un tempo puro” spiega Marc Augé, l’antropologo francese che ha riflettuto sui non-luoghi, profondamente diversi dalle rovine perché caratterizzati dall’asetticità e dall’assenza di storia. Sono gli aeroporti, gli autogrill, i centri commerciali e tutti quei posti dove transitiamo smarrendo memoria e identità. Al contrario, “guardando le rovine non sapremo mai cosa rappresentavano per coloro che invece le vivevano quando ancora rovine non erano” prosegue Augé. A volte infatti cerchiamo di animare quegli stessi luoghi con la fantasia, popolandoli delle persone che un tempo li riempivano. L’etnologo riconduce l’interesse per la decadenza a “un sentimento di mancanza, che è essenziale nell’estetica: una consapevolezza del tempo che va oltre la storia”.

The chancel and crossing of Tintern Abbey - Turner

Tra gli artisti pionieri dell’amore per le vestigia spicca William Turner. Il pittore inglese prediligeva i soggetti che rimandano a un’idea di distruzione; dai naufragi alla serie di dipinti sul parlamento inglese distrutto da un incendio nel 1834.  The Chancel and Crossing of Tintern Abbey, Looking towards the East Window (1794) rappresenta le grandi arcate della prima abbazia cistercense del Galles, ricoperte di vegetazione. Due uomini passeggiano sotto le rovine: sono piccoli e insignificanti davanti al tempo che consuma le loro vite e gli edifici, anche quelli grandiosi, da loro costruiti. Il fascino discreto dei luoghi abbandonati è stato protagonista alla Tate Gallery londinese. Ruine Lust, titolo dell’esposizione che si può tradurre con “sete di rovina”, ha esplorato la rappresentazione di paesaggi ed edifici in rovina, dal 700 ad oggi. Le rovine diventano anche silenziose testimoni della storia. A raccogliere l’eredità di Constable, Turner e Piranesi (che rappresentava la magnificenza dell’Impero romano decaduto) sono stati numerosi artisti. L’attenzione si sposta sulle macerie all’indomani della Seconda Guerra Mondiale quando le città cambiano faccia dopo i bombardamenti. A Berlino ad esempio c’è un vero e proprio monumento alla rovina: la chiesa dell’imperatore Guglielmo, la Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche, che conserva e mostra la distruzione del conflitto. imperatore-guglielmoAccanto sorge una nuova e modernissima chiesa, che a molti tedeschi non piace: una giustapposizione del vecchio, semidistrutto, e del nuovo, ricostruito, che obbliga a riflettere. Il ricordo del genocidio e del trauma storico, diventa la caratteristica dell’arte della rovina dell’ultimo secolo. Le gemelle Jane e Louise Wilson, ad esempio, hanno messo al centro della loro opera i bunker e gli avamposti militari del Terzo Reich.

Alex Vicente, giornalista de El Pais, ha raccolto il parere di Brian Dillon, curatore della mostra Ruine Lust e fondatore della rivista Parkett: “Le rovine sono un promemoria della realtà universale del collasso e della putrefazione, come un avviso che arriva dal passato sul destino della nostra civiltà. È un ideale di bellezza che attrae proprio per i suoi difetti e le sue mancanze, un monumento ai caduti di guerre antiche o recenti, l’immagine precisa dell’eccesso economico e del declino industriale”. Dillon s’interessa ai luoghi abbandonati da anni e ne scrive anche sul blog Ruins of 20th Century.

Ruine Lust suggerisce che l’architettura che si fa detrito, la fabbrica dismessa e ogni luogo invaso da muffa e abbandono, siano l’immagine del fallimento, se non della civiltà intera, almeno dello stato del benessere. Jon Savage ha fotografato le periferie deserte di Londra est: le case popolari costruite ma non abitate sono il simbolo di una sconfitta ma anche della necessità di reinventare continuamente i luoghi, trasformandoli secondo bisogni e necessità.

Anche a Parigi, al Palais de Tokyo, sono arrivate le rovine (la mostra L’état du ciel è visibile fino a settembre). All’interno della vasta esposizione spicca l’opera dell’artista giapponese Hiroshi Sugimoto che con la serie Aujourd’hui le monde est mort riflette sull’umanità e su una crescita spesso cieca. Da più di dieci anni Sugimoto raccoglie oggetti di epoche e luoghi diversi e attraverso la giustapposizione di questi descrive un lascito desolante, una manciata di cose come simbolo della  squallida eredità della nostra società. “Greci, romani e inca hanno lasciato traccia del loro patrimonio nei templi. Mi chiedo cosa lasceremmo noi se la civiltà finisse domani” ha spiegato l’artista a El Pais.

Là dove la vita dell’uomo non passa più, l’occhio si ferma perché curioso di vederne le tracce e i detriti. Davide Virdis ha eletto i luoghi abbandonati a soggetto del proprio obiettivo fotografico. É un architetto sardo che però scatta foto quasi a tempo pieno. Con la serie Relitti ha indagato quella che definisce “un’umanità in cantiere”. Insieme a Paolo Chiozzi, antropologo visuale, ha portato in giro una mostra che immortala le tracce umane in interni in disuso: dalle fabbriche dismesse, ai bagni marini fino alle case coloniche. “Dopo un periodo di lavoro come fotografo d’interni ho in un certo senso reagito a tutta quell’artificialità”, spiega Virdis che ora vive a Firenze. “Ho fatto evadere la mia fotografia riportandola alla luce naturale, iniziando a fotografare i relitti: gli interni abbandonati che conservano una chiara traccia del passaggio umano”. Negli scatti di Virdis, infatti, ci sono materassi, cumuli di abiti ammassati in un’ex fabbrica di Prato, armadietti scardinati con ritagli di giornale e fotografie, scarpe spagliate e pulsantiere senza più mani a comandarle. Ne esce l’anima del luogo, probabilmente perché il segno di chi vi ha vissuto è ancora evidente, per quanto impolverato. Relitti ripartirà presto dalla Sardegna in giro per l’Italia e alla domanda sul perché le rovine affascinano il nostro occhio, il fotografo risponde: “É un po’ come essere un archeologo, scavalcare un muro violando i sigilli con la speranza di trovarvi un tesoro o almeno sentire la presenza di ciò che un tempo era”.

Articolo pubblicato su http://quotidiano.repubblica.it/rsera    il 14 agosto 2014

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Bagni Iride sul litorale di Platamona

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In alto la Ferriera sarda di Porto Torres, apre nel’61 e produce tondini di ferro, chiuderà 18 anni dopo. Sotto le Officine di rigenerazione della rotaia a Pontassieve

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Ex vetreria Savia a Empoli

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Capannone portuale nell’area di Porto Torres. Sotto l’ex cartiera di Arbatax

 

 

 

Foto di Davide Virdis, qui altri suoi lavori

 

 

 

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