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I poster di Crudi: avanguardia e sperimentazione

Classe ’88, autodidatta, Leonardo Crudi “espone” per le vie di Roma i suoi manifesti che raccontano le storie di chi ha provato a cambiare il mondo attraverso l’arte

Dal writing alla bic, dai muri dipinti a quelli ricoperti da un poster. Leonardo Crudi, classe ’88, è un artista romano che ha attirato il nostro occhio con due locandine dedicate ad Amore tossico, film cult di Caligari, attaccate in via Castro Pretorio. E poi ecco comparirne altre lungo la Nomentana e in altre zone della città. «Una volta terminato un manifesto, giro per Roma alla ricerca del posto giusto dove affiggerlo. Mi faccio un sacco di belle passeggiate…» conferma Crudi.

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I poster tra forme e storia

Un segno e una composizione che cattura l’occhio ma non solo. In ogni poster c’è un volto – che sia quello di un attore o delle personalità dell’avanguardia russa – una storia, una parentesi di rivoluzione o sperimentazione che fa domandare allo spettatore: «chi è quello?» oppure riconoscerlo. Penna a sfera usata come una mina sottile che si muove in verticale, smalti per riempire di colore uniforme la geometria. Forma e contenuto contribuiscono a stimolare quella riflessione intellettuale teorizzata da Ėjzenštejn, il cosiddetto montaggio delle meraviglie, che infatti Crudi studia e approfondisce. L’artista deve cambiare il mondo, a provarci sono state le avanguardie: Suprematismo, Costruttivismo e Futurismo russo, l’artista rielabora le lezioni di Rodčenko, El Lissitzky e Malevič.

 leonardo-crudi-di-fronte-al-manifesto-popova-affisso-in-piazza-orazio-giustinianiLeonardo Crudi di fronte al manifesto Popova, affisso in piazza Orazio Giustiniani

Rivoluzione

Per il centenario della Rivoluzione d’Ottobre – 7 novembre 2017 – Crudi ha ideato un progetto di arte pubblica: manifesti, dipinti, disegnati a mano che si rifanno alla cartellonistica d’avanguardia sovietica. Contenuti politici esposti sui muri, per arrivare a tutti. Poco importa se il sole li scolora e qualcuno pensa di staccarlo e metterlo in soggiorno. Un messaggio politico che però poi si stempera nell’arte, nella manualità e non serialità dell’opera. Verrebbe da dire che è solo un ammiccamento al politico per poi ribattere – a se stessi, in un dialogo di autosmascheramenti – che l’arte e la cultura sono politica.

Cinema

Alla fine del 2017 arriva il progetto Cinema: locandine per le avanguardie cinematografiche o per quei film che non hanno avuto locandine perché fuori dai circuiti di promozione. Anche questi sono affissi in strada, illudendoci per un secondo che quel film sconosciuto che però tanto ci era piaciuto sia stato accolto in un cinema, magari un d’essai, e riproposto.

Intervista a Leonardo Crudi

Abbiamo fatto qualche domanda a Leonardo Crudi. E se già avete voglia di scoprirlo, cercate i suoi poster all’Outdoor Festival.

Il poster era considerato, nella classificazione tradizionale, un’arte minore eppure nella sua potenzialità espressiva è funzionale a tutte le arti. Perché hai scelto questo supporto? 

«Ho iniziato a dipingere manifesti alla fine del 2016, in vista del centenario della Rivoluzione russa, che si sarebbe celebrato il 7 novembre 2017. Il manifesto è stato lo strumento propagandistico rivoluzionario per eccellenza. Artisti d’avanguardia, come Aleksandr Rodčenko ed El Lisickij, hanno realizzato poster a sostegno della Rivoluzione. Sono rimasto affascinato dalla grafica sovietica degli anni ’20 e mi è sembrato coerente utilizzare il manifesto, strumento di comunicazione dell’epoca rivoluzionaria, per realizzare opere dedicate al centenario e alle più importanti personalità, intellettuali e artistiche, dell’avanguardia russa (Ljubov’ Popova, Vladimir Majakovskij, Sergej Ėjzenštejn, etc.). C’è quindi uno stretto legame tra i temi delle mie opere e il supporto che impiego». 

Come scegli i tuoi poster da attaccare per la città? Ogni quanto lo fai? Ti piace metterne in risalto la temporalità: il poster lentamente si consuma, si sporca, magari viene strappato… 

«Dipingo manifesti destinati esclusivamente ai muri della città. Uso la carta da modello – quella dei sarti, per intenderci -, gli smalti, la penna bic o le matite. Una volta terminato un manifesto, giro per Roma alla ricerca del posto giusto dove affiggerlo. Mi faccio un sacco di belle passeggiate… Naturalmente, una volta affisso in strada, il manifesto è in balia delle intemperie atmosferiche e non solo. Il sole, ad esempio, dopo un po’ sbiadisce l’inchiostro della bic, con cui disegno i volti. Poi c’è chi prova a strapparlo dal muro, per portarselo a casa: non ci riesce e lo lascia mutilo di alcune parti. Ma non mi lamento, il decorso di un’opera nel contesto urbano è questo, se si rovina o te la strappano ci sta. Se non ho mostre da preparare, riesco a fare 2 poster a settimana, e per il momento sono tutti dedicati al progetto Cinema».

Il tuo orizzonte artistico varca i confini italiani ma qual è il tuo rapporto con Roma, sia come città da vivere e in cui lavorare che come ispirazione artistica? 

«Conosco Roma grazie alla mia precedente attività di graffitaro. Dall’adolescenza fino ai 22 anni ho vissuto di notte in giro per le strade della capitale. Posso dire di aver viaggiato per Roma… L’ho visitata tutta, frequentando molto le periferie. Per quanto riguarda l’influenza culturale della città sulle mie opere, mi vengono in mente gli artisti della Pop Art romana, in particolare Renato Mambor, e i registi del cinema neorealista e d’avanguardia italiano, che hanno vissuto e lavorato, per la maggior parte, qui a Roma. Ho contaminato queste influenze con lo studio delle avanguardie russe. Così nasce il mio lavoro». 

Il progetto “cinema” ha una valenza anche politica, dare spazio e visibilità a film non main stream che non hanno mai avuto “l’onore” di una locandina. Tra questi hai scelto Caligari, cosa ti ha colpito dei suoi film? E a quali altri film/registi darai voce? 

«Il progetto Cinema si collega a quello Rivoluzione. Gli ultimi manifesti che ho realizzato per il centenario erano dedicati a registi delle avanguardie sovietiche, come Dziga Vertov e Lev Kulešov, veri e propri innovatori del cinema. Poi ho iniziato a dipingere locandine di film italiani, iniziando con Caligari, il quale, anche se ha fatto parte di collettivi d’avanguardia, non si può definire un regista rigorosamente d’avanguardia. Nei suoi film, L’odore della notte, Amore tossico e Non esser cattivo, la componente narrativa è fondamentale. Di Caligari mi piace il suo modo di rappresentare, in chiave contemporanea, i problemi del proletariato e del sottoproletariato. La realizzazione di locandine dei suoi film cult, che hanno avuto un’ampia distribuzione, mi serviva per annunciare il mio nuovo progetto e per far capire che le tematiche, trattate nel progetto Rivoluzione, sarebbero state presenti anche in questa nuova serie di manifesti. Sono entrato nel vivo del progetto Cinema quando ho iniziato a dipingere manifesti di film, per i quali non erano mai state realizzate locandine pubblicitarie. Sono nate così le mie opere dedicate ai registi dell’underground italiano, come Alberto Grifi, Romano Scavolini, Nico D’Alessandria, Lajolo-Lombardi-Leonardi (Collettivo Videobase). Una buona parte del cinema d’avanguardia italiano degli anni ‘70 ha dato voce alle contestazioni politiche dell’epoca, offrendo un immaginario nuovo sia dal punto di vista artistico che politico. Dipingere locandine di film d’avanguardia è un buon modo per comunicare contenuti politici e per suscitare, allo stesso tempo, la curiosità nei confronti di un cinema sperimentale, che rischia di cadere nell’oblio. Per il futuro ho intenzione di realizzare manifesti di pellicole di Alfredo Leonardi, Piero Bargellini, Massimo Bacigalupo, Paolo Brunatto ed altri». 

 Articolo pubblicato su Roma Italia Lab

Il mare dietro via del Corso

La libreria del Mare da oltre 40 anni è un ridosso sicuro per tutti gli amanti dell’acqua salata. Dalla navigazione all’esplorazione subacquea a molto altro. Da qui sono passati Hugo Pratt, Bernard Moitessier, Battisti, Daniele e De Gregori. Ecco la storia di un pezzo di mare in piena città raccontata dal libraio Marco Firrao

CartelloMoitessier

Avevo davanti agli occhi tutto il mare, i venti, le onde, le barche e i modi per farle navigare. Tutta l’avventura umana che ci ha permesso di conoscere e capire il mare ed il cielo al di sopra di esso. Tutto questo in migliaia di libri scritti e vissuti dall’alba dell’umanità…

Con queste parole Bernard Moitessier, grande navigatore e scrittore francese, descrive Il mare libreria internazionale, comunemente detta Libreria del mare. Una «grotta di Alì Babà» la definisce l’uomo che per primo fece il giro del mondo a vela in solitario e senza scalo. E paragonare ad un tesoro questa raccolta di libri di mare non è un azzardo. Nata nel 1975, approda in diversi luoghi, tutti nel centro di Roma, per poi gettare l’ancora in via del Vantaggio, stradina ridossata dal via vai di via del Corso e del Tevere. Qui, al numero 19, c’è uno spazio dedicato alla cultura del mare, un approdo, un avamposto, una caletta protetta, un luogo dove trova spazio lo studio e la curiosità. Il mare è infatti esplorato in tutte le sue declinazioni. Sulla superficie che il vento increspa e che i velisti sfruttano per veleggiare; nelle sue profondità quiete e ovattate da conoscere con le bombole o trattenendo il respiro. Ma non solo, perché il mare è anche storia di popoli, migrazioni ben più antiche di quelle odierne, scienza, ecologia, archeologia, meteorologia, cucina. E, certo, narrativa.

Abbiamo incontrato Marco Firrao professione libraio. E come accade sulle banchine dei porti – quando magari si aspetta che il vento giri a favore per partire – si inizia a chiacchierare seguendo un filo che passa per luoghi, miglia, letture, incontri e racconti.

«Bisogna fare tutto per passione perché le difficoltà ci sono sempre ma se dalla tua hai la passione puoi farcela. E poi la curiosità, io lo sono per natura e il mare è parte integrante della mia vita. Mai fatto una vacanza in montagna» racconta Marco che ha iniziato sotto l’acqua e poi si è spostato sopra a veleggiare. Per questo luogo, nelle sue diverse sedi, sono passati tanti amanti del mare, alcuni sono nomi noti, altri sono nomi che dicono qualcosa – anzi indimenticabili avventure – a chi è appassionato e altri ancora sono cognomi che non dicono nulla a quasi nessuno «amici lettori che però hanno fatto grandi cose» ci dice Marco.

Un giorno entrò una donna e mi chiese di fare una ricerca sul banco misterioso dei Caraibi, quando riuscii a farle avere la carta nautica mi chiese di fare un altro studio per trovare un libro raro: il chi è chi dei pirati che elenca tutti i pirati e le loro imprese o malefatte. In quel periodo avevo una amica che stava a New York e tramite lei riuscii a trovare il volume. Allora a quel punto lei mi disse “adesso glielo devo dire, queste cose servono a un maestro per fare una storia…si chiama Hugo Pratt”. Da lì è nata un’amicizia, è venuto qua e ci siamo frequentati fino a quando poi purtroppo se ne è andato.

E nell’album degli incontri da incorniciare del libraio di acqua salata ci cono Jacques-Yves Cousteau, pietra miliare marina del secolo scorso. Lucio Battisti che amava navigare, Pino Daniele perché il mare è stato sua grande ispirazione o ancora Vinicio Capossela sopratutto quando scriveva il disco “Marinai, profeti e balene”. E ancora Francesco De Gregori che aveva una passione per il Titanic.

Arte – che sia musica, poesia o pittura – e mare: un legame forte, indagato da Luca Sonnino nel libro di foto Rapsodia Blu. Marco spiega: «riflettevamo insieme proprio sul discorso del mare come ispirazione, Luca voleva che le foto fossero commentate da brani e poesie, allora ci siamo messi a fare delle ricerche per scoprire che se non tutti, quasi tutti gli artisti, una parte di mare ce la avevano. Anche un campagnolo come Pascoli! O Proust».

Le librerie indipendenti puntano – oltre che sull’organizzazione di eventi – anche sul rapporto personale libraio/lettore. Una scelta che La libreria del Mare ha nel suo dna come anche l’attenzione alle innovazioni: l’e-commerce qui è arrivato nel ’97, con un certo anticipo. «Il libraio è sempre stato in crisi, fa parte del suo ruolo» spiega Marco. 40mila gli articoli catalogati nel sito e 10mila sugli scaffali ma «i fondamentali volendo stringere saranno 100». E pescando tra le ultime pubblicazioni (e qualche classico) ecco quali sono i consigli della Libreria del mare:

– Un classico per avvicinarsi all’avventura della vela La lunga rotta di Bernard Moitessier (Mursia).

– Sergio Albeggiani Isole lontane (Mursia), «scritto bene, fa appassionare a una cosa che tutti possono potenzialmente fare, è il racconto dell’autore e di sua moglie che, da pensionati, hanno intrapreso e portato a termine il giro del mondo in barca a vela».

– Sull’attività subacquea Il respiro degli abissi di James Nesto (Edt), un giornalista che si avvicina al mondo sotto la superficie del mare.

– E per la sezione saggi storici Il grande mare di David Abulafia. «Lo darei da leggere ai ragazzi, parla del Mediterraneo. Per capire le migrazioni per esempio devi leggerlo perché il nostro mare è sempre stato un mare di passaggi: la migrazione  non si è mai fermata, forse la differenza è che c’erano meno confini. L’nvasione dei barbari, cosi chiamata dai romani, in realtà era una migrazione dovuta a una preglaciazione, popoli del nord che finite le risorse si sono spostati. I Berberi erano un popolo nomade del Nord Africa sterminati dagli arabi perché chi non ha patria non viene mai bene visto: mette in crisi il controllo. E il mare è una di queste superfici che sfuggono al controllo perché è senza confini».

I libri di mare però non attirano e appassionano solo chi è già innamorato dell’acqua salata. Un esempio è il caso letterario de La vera storia del pirata Long John Silver a firma di Björn Larsson, scrittore svedese che ama l’Italia e che infatti ha iniziato ad esplorare il Mediterraneo. Questo romanzo è stato tradotto in decine e decine di lingue e ridà vita al memorabile pirata dell’Isola del tesoro di Stevenson.

Anche Conrad usava il mare per spiegare l’animo umano e forse è questo il segreto dei grandi libri di mare: sul mare tu più facilmente spieghi le sfaccettature dell’uomo, perché non ci sono altri orpelli, c’è l’essenza dell’uomo che lascia a terra molte cose. Mi vengono in mente a questo proposito anche Wilburn Smith con Come il mare o Sulla rotta degli squali. Una delle definizioni più azzeccate la diede un ragazzo con disturbo dello spettro autistico durante un incontro sul mare e la psicoterapia, qualcuno gli chiese “perché al timone di una barca non hai gli stessi problemi che hai a terra” e lui rispose “perché a terra so quali sono i miei problemi, in mare è l’infinito” intendeva l’incognito: in mare non puoi conoscere tutto ma puoi solo affrontarlo di volta in volta, ci sei tu e l’elemento e basta!

Insomma anche le avventure di mare sono storie di uomini e per questo ci interessano, Moitessier lasciò la regata per tirare dritto in Polinesia «da Elena di Troia ad oggi certe cose si fanno per una donna, per amore» continua Marco. Quando vi manca il mare, fate un giro in questa libreria, partecipate a una delle presentazioni che organizzano, scambiate due chiacchiere o perdetevi in una carta nautica. Che poi usciti da quella porta quasi vi stupirete nel non vedervi davanti un orizzonte blu di cielo e mare.


Questo articolo è stato pubblicato su Roma Italia Lab

“Rapita per i miei tatuaggi”. La storia di Evelyn e delle donne del Triangolo del Norte

Il giorno che mi hanno deportato in Honduras è iniziato un incubo, a causa dei miei tatuaggi. Li avevo fatti negli Stati Uniti ma in centro America infastidivano i pandilleros”. Evelyn ha 27 anni ed ora che ha ottenuto la protezione complementare in Messico (una protezione prevista per chi non può tornare nel proprio Paese), con l’assistenza dell’Unhcr, vuole raccontare come la violenza delle maras – i gruppi armati legati al narcotraffico e alla criminalità – possa essere arbitraria e non lasciare altra possibilità che la fuga.

4df760516Ci parla da una fattoria messicana, la giornata di lavoro deve ancora iniziare, lei lavorerà ma senza esagerare perché è incinta della terza figlia. Evelyn è partita per gli Stati Uniti giovanissima e vi è rimasta dieci anni, un lungo periodo di vita clandestina in cui si guadagnava da vivere tra ristoranti e fattorie. Ed è in territorio Usa che si è fatta numerosi tatuaggi perché le piacevano e perché lì era la moda: fiori colorati sulle spalle e sui fianchi e i nomi delle sue bambine. Ma un giorno una collega la denuncia, sa che Evelyn non ha i documenti in regola e le fa pagare una lite con una telefonata alla polizia che la porterà in un centro di detenzione per migranti. “Non saprei dire quanto ci sono rimasta, mi hanno liberato perché avevo una bambina a carico” racconta Evelyn. Poi alla scarcerazione è seguito la deportazione in Honduras, il Paese dove era nata. L’Honduras è al primo posto, nel mondo, per il numero di omicidi: 57,3 persone ogni 100mila abitanti muoiono di morte violenta. La media nel resto del pianeta è 6,2. La ragazza era ospite della sorella a San Pedro Sula, non lontano dal confine guatemalteco, ma dopo soli cinque giorni è stata rapita. “Ero in un negozio, sono arrivati due uomini, mi hanno sollevato e caricato su una macchina, all’inizio non capivo, mi tempestavano di domande sui miei tatuaggi”. Le maras del Centro America – le più importanti sono la Pandilla Barrio 18 e la Mara Savatrucha MS 13 – usano i tatuaggi come segno distintivo e di appartenenza, ogni disegno ha un significato legato all’iniziazione o alle attività criminali e i capi possono tatuarsi anche il volto. “I miei tatuaggi li disorientavano, alcuni avevano colori appartenenti a maras nemiche, ad un certo punto hanno pensato che fossi la donna di più capi allo stesso momento”. Durante il sequestro Evelyn ha subito diverse forme di violenza che non vuole ricordare, “continuavano a chiedermi il significato dei miei tatuaggi e mi ripetevano: ‘possibile che nessuno ti abbia spiegato che non puoi avere questi colori insieme?’”. Poi è stata liberata: “non so perché, se io li abbia convinti delle mia totale estraneità da quel mondo, se lo abbia voluto Dio o se li ho impietositi parlandogli delle mie bambine”.

La storia di Evelyn racconta la fuga che sempre più donne centroamericane affrontano per sottrarsi alla violenza: nel 2015 le organizzazioni stimano quasi 76.000 deportazioni tra uomini, donne e minori in Honduras, 50.000 donne se si prendono in considerazione i tre paesi del “Triangolo del Norte”. Da Salvador, Guatemale e Honduras infatti, le domande di asilo verso gli Stati Uniti nel 2014 hanno oltrepassato le 40.000 ma la protezione viene chiesta anche in Messico e nei Paesi vicini: dal 2008 ad oggi il numero di richieste nei Paesi confinanti si è moltiplicato per tredici. “Women on the run”, un report a cura dell’Unhcr, riporta le esperienze delle donne in fuga, la loro sfiducia nelle forze dell’ordine, le minacce che le seguono anche se cambiano provincia di residenza e la violenza fisica e psicologica. Sono spesso le stesse maras a imporre la scelta: o la morte o la fuga e così nel giro di poche ore si scompare spesso insieme ai propri bambini. Si diventa l’obiettivo dei pandilleros per ragioni diverse: una donna può essere desiderata da uno dei componenti, i giovanissimi vengono scelti come reclute, informatori o tuttofare a partire dai sei anni. E se non vogliono unirsi vivranno costantemente minacciati. Come accade ai negozianti, agli autisti di autobus e a chiunque abbia un’attività, la pandilla reclama la “cuota”, il pizzo, e se non si paga si viene perseguitati, spesso i propri cari vengono uccisi come forma di punizione. La “tassa di guerra” è un’estorisione che colpisce tutti: le donne che vendono tortillas di mais per strada, i tassisti e chi ha parenti negli Stati Uniti che inviano denaro a casa, le maras lo sanno e pretendono la loro parte.

Evelyn sta avviando la procedura per ricongiungersi con la sua prima figlia che vive ancora in Honduras e conclude il suo racconto con un appello: “Cercate aiuto, nei rifugi vicino ai confini ci sono cartelli con nomi di associazioni e numeri di telefono, chiamate e non rimante in silenzio perché uscire da quell’inferno ed essere protette è un vostro diritto”.

Pubblicato il 24 maggio su Repubblica.it

 

La disfida della siesta

siesta-1905Resistere. Dopo il pranzo, un veloce caffè e si torna a lavoro. È il triste destino di quasi tutti i lavoratori e da oggi anche l’ultimo baluardo dei pisolatori rischia il crollo: gli spagnoli potrebbero dover rinunciare alla “siesta”, la dormita legalizzata che consente ai cittadini iberici di fare una lunga pausa: dalle 14 fino alle 16 o addirittura le 17. Lo ha deciso Rajoy, primo ministro spagnolo, che sembra voler dare un ultimo colpo di reni alla produttività del suo Paese, ci aveva già provato nel 2013 ma il progetto era fallito e questa volta il premier conta di trovare consenso facendo leva non tanto sulla sete di profitto quanto sulla logica: riducendo la pausa si anticipa anche l’uscita dall’ufficio. Eppure non è detto che gli spagnoli ci caschino perché ormai in tutto il mondo la siesta si è scrollata di dosso l’immagine della pelandrona per diventare la migliore alleata della creatività e dei fatturati in crescita da Nike a Google. Già alcune categorie erano state richiamate all’ordine in nome dell’efficienza: Zapatero aveva accorciato il pranzo di chi lavora nell’amministrazione. E aveva ricevuto gli applausi della Confindustria spagnola secondo la quale l’8% del pil andava in fumo per colpa della siesta. La Spagna deve cambiare passo e la rivoluzione non è solo per chi timbra il cartellino, Rajoy vuole stravolgere anche il fuso orario. O meglio normalizzarlo al “tempo medio di Greenwich” perché Madrid è tarata sull’orario di Berlino, una decisione ormai fuori tempo visto che fu presa da Franco nel 1942 in omaggio ad Hitler. L’eccessivo calore delle ore centrali della giornata è, nell’immaginario comune, la giustificazione dei popoli meridionali, mediterranei e latini, per chiudere gli occhi, abbassare il sombrero, rilassare le membra e “ronfare”. La siesta è un’abitudine che fa rima con un certo senso di svogliatezza e diventa vezzo geniale solo quando si associa al potere politico o all’estro artistico. Da Bonaparte a Churchill che dormivano tra il primo e il secondo tempo delle battaglie. Anche in sella al cavallo. Fino a Clinton e Thatcher e ai sonnellini lampo dichiarati da Berlusconi. I micro-sonni d’altronde sono obbligatori per i navigatori solitari che solcano gli Oceani e non possono concedersi di mollare la barra del timone. La creazione artistica è un’altra valida giustificazione, Salvador Dalì si distendeva su una chaise longue e dipingeva le immagini sognate. E in qualche caso un neofita dell’arte potrebbe giurare che avesse mangiato un po’ pesante. O Albert Einstein che si appisolava impugnando una penna per svegliarsi quando gli cadeva di mano. I comuni mortali però se si appoggiano un attimo sul divano sono solo dei pigroni scansafatiche.
Nella lista di chi al contrario vuole scagionarli c’è Jaques Chirac che nella prefazione dell’Elogio del sonno di Bruno Comby scrive: «il solo accenno al riposo suscita sberleffi, pensiamo alle battute che l’umorismo popolare rivolge alla siesta e a coloro che la praticano ma è sciocco confondere il sonno con la pigrizia».
Eppure nell’era della produzione a tutti i costi, mentre si diffondono supermercati aperti ventiquattro ore su ventiquattro e la domenica diventa giorno lavorativo (Il capitalismo all’assalto del sonno di Jonathan Crary), si riafferma il diritto alla siesta e il dolce dormire diurno si rivaluta. A farlo sono i grandi marchi, giganti come Google, Uber o Cisco che hanno deciso di restituire dignità al diritto al riposino, le “nap room” potrebbero presto essere realtà in ogni azienda. Un divano comodo, in alcuni casi un letto, in una stanza silenziosa, con anche la possibilità di farsi un thé o concedersi una merenda, diventeranno la norma. Come è oggi lo spazio davanti alla macchinetta del caffè lì dove il tempo del lavoro è sospeso. Ma lasciar riposare i propri dipendenti non è una generosa concessione, la logica rimane il profitto: è la National Sleep Foundation a dire che un riposino aumenta la produttività, cresce la creatività e diminuiscono i danni per la salute. E l’azienda ci guadagna, secondo il Journal of Sleep la mancanza di sonno costa agli Usa 63 miliardi di dollari. La paladina del sonno è Arianna Huffington, fondatrice dell’omonimo sito di informazioni, lei ha avuto un’epifania quando nel 2007 ha avuto un malore per l’eccessiva stanchezza. Da allora si oppone al “superlavoro”, regala pigiama ai suoi giornalisti e a breve partirà per un tour nei college per portare in giro il verbo della Sleep Revolution.
Si può dormire in ufficio ma in Inghilterra hanno preferito concedere due giorni di ferie extra a scopo rigenerante: sono i “duvet day”, i giorni del piumone che stabiliscono che poltrire, ogni tanto è sacrosanto e non è necessario presentare certificati o dare spiegazioni.
Il piacere estremo della tregua nel bel mezzo della giornata, del buio artificiale creato da una persiana chiusa alle 15 del pomeriggio, è descritto dal Giovanni Percolla di Vitaliano Brancati. Quando si infila nel letto della sua casa siciliana: «Tutto il corpo gli s’intiepidì, e fin dai calcagni, che a Milano s’era tirato dietro come pezzi di ghiaccio, gli salì alla testa un’onda di sangue calda e mormorante». «Un solo minuto! Il tempo di entrare sotto le coperte, e uscirne! Lasciami levare questo capriccio!» aveva detto Giovanni all’impaziente Ninetta ma poi, si sa come va a finire. Dalla goduria infantile descritta da Brancati, dall’altro lato dell’Oceano, un altro scrittore ha descritto la siesta. Lo ha fatto Marquez allargando lo sguardo su un villaggio addormentato e polveroso, quello dove arriva la madre del ladro nella Siesta del martedì: case mute e porte sprangate nel letargo del dopo pranzo. Un popolo che dorme indifferente fino a quando non decide di destarsi per curiosare, spiare e sparlare di quella donna venuta a vedere la tomba del figlio colpevole.
La Cina lo ha sancito nella Costituzione il diritto alla siesta (xiu-xi), le grandi aziende si stanno attrezzando e chissà che gli spagnoli non riescano a salvare la dormita dopo pranzo: proprio ora che la loro tradizione è stata rivalutata. «Separati dal mondo, stiamo ben più che bene: in quel momento non siamo nulla» scrive Philippe Delerm ne La Siesta assassinata. Delerm è anche l’autore de La prima sorsata di birra, uno che di piaceri si intende.
Pubblicato su Repubblica il 5 aprile 2016

I guerriglieri contadini di Nuevo Horizonte

Nuevo Horizonte è una comunità fondata e gestita da ex guerriglieri, un territorio di 900 ettari nella regione del Péten in Guatemala. Per trentasei anni l’orizzonte di questi uomini e donne è stato la guerriglia. Armati, nella giungla, hanno combattuto una delle guerre civili più sanguinose del Centro America. Poi, dismessi i fucili hanno deciso di continuare a vivere insieme, sempre lottando anche se senza armi, costruendo, appunto, un nuovo orizzonte e una socialità diversa. Avendo vissuto condividendo una causa per la quale erano disposti a morire, avendo perso la famiglia, i guerriglieri non potevano che immaginare un futuro insieme; una comunità organizzata secondo gli stessi ideali di resistenza ed uguaglianza che animavano la lotta armata. Un’uguaglianza che si legge anche nella quotidianità della donne nella comunità: sono emancipate e rivestono ruoli importanti proprio come quando combattevano, quando il loro apporto alla lotta era fondamentale come quello di un uomo.

le foto sono di Lorenzo Monacelli http://www.lorenzomonacelli.com

le foto sono di Lorenzo Monacelli http://www.lorenzomonacelli.com

“Oggi mi diverto a farmi chiamare comandante lemonero anziché comandante guerrillero” dice Fernandez, settant’anni, che un tempo era un alto grado delle FAR, le Fuerzas Armadas Rebeldes. Fernandez ha i capelli arruffati e appena brizzolati, il Parkinson gli spezza le parole ma le recupera sempre per non interrompere il racconto. Riesce nonostante la mano che trema a sbucciare perfettamente, con un machete, un ananas e una canna da zucchero.

All’inizio Nuevo Horizonte era un gruppo di 127 ex-guerrilleros, dopo gli accordi di pace del 1996 si unirono per comprare un terreno (che ancora stanno pagando). Era una steppa arida difficilmente coltivabile. Un paio di scarpe rotte e l’abito che avevano indosso erano i beni degli ex guerriglieri che volevano diventare – o spesso tornare – contadini. Dormivano in tende e capanne di fortuna lavorando per i proprietari terrieri dei campi vicini che li ritenevano comunisti, terroristi, ladri, delinquenti e assassini. “Dovevamo dimostrare al mondo il contrario” dice Fernandez. “Oggi a Nuevo Horizonte vivono circa cinquecento persone, in centoventi famiglie” spiega Eugenia Pietrogrande referente in loco per Amka, una Onlus romana che opera in Guatemala dal 2009. Racconta che c’è un ufficio comunitario, case, campi, l’internet point, un centro di turismo solidale, un allevamento di vacche, una piscicultura e una scuola popolare. “Sono tutti progetti comunitari quindi il guadagno viene rinvestito nella comunità – spiega – la terra legalmente non appartiene a nessuna persona fisica ma alla cooperativa. Non c’è proprietà privata, anche le case sono di utilizzo comunitario”.

Amka aiuta Nuevo Horizonte attraverso il supporto tecnico ed economico a progetti comunitari di salute, educazione, attività produttive, turismo solidale ed empowerment delle donne. Al momento della fondazion, la disciplina della lotta armata venne applicata alla coltivazione e alla vita comune. La tenacia e la solidarietà sperimentate nella giungla fanno sì che il gruppo prosegua unito; mais, fagioli, alberi da frutta, per cominciare e sostentarsi. Mentre una parte di terra veniva “riforestata” quasi in segno di gratitudine e per rispetto di quegli alberi che li avevano accolti e protetti durante la guerra civile. “Mai avrei immaginato di diventare un guerrigliero, non sapevo cosa significassero parole come socialismo, comunismo o rivoluzione” prosegue Fernandez. Da bambino ha lasciato la scuola, una decisione che ricorda come il suo primo atto di diserzione.FLM_7119

Una famiglia di otto fratelli e una gioventù passata a lavorare nei campi. Era il 1979 quando Fernandez entrò in contatto con la teologia della liberazione, una corrente religiosa progressista; “vennero dieci sacerdoti spagnoli per un progetto di sviluppo, organizzavano vari corsi dalle tecniche agricole alla carpenteria” spiega il comandante. Ma l’insegnamento più importante era lo spirito collettivo, nella vita e nel lavoro. Fondarono una comunità, c’era la libertà di culto ma si andava affermando una repressione sempre più forte; erano gli anni in cui gli Stati Uniti inviavano forze armate speciali, i cosiddetti berretti verdi, contro ogni forma di insurrezione. Anche i movimenti religiosi meno conservatori erano bollati come comunisti e dunque perseguitati.

 “Una volta ho mostrato ai militari la Costituzione, l’articolo sulla libertà di culto, l’hanno stracciata dicendo ‘Esta mierda non existe, non vale nada’ e ridussero in pezzi anche i miei documenti d’identità” ricorda Fernandez. Molti civili erano armati e chiamati alla leva, così all’inizio degli anni ottanta in molti entrarono in clandestinità per organizzare la resistenza. “Non c’era molta scelta: o la morte o la guerriglia” spiega Fernandez.

Fernandez si occupa dei limoni, ha un figlio di venti anni che studia agraria e prosegue l’attività politica. Ha anche scritto un piccolo manuale che si intitola Algunos aspectos politicos de la militancia revolucionaria. “E’ molto utilizzato” spiega Rony, anche lui di Nuevo Horizonte, esperto conoscitore d’ogni pianta e animale della giungla dove ha vissuto per quasi venti anni. Adesso Fernandez sta scrivendo un vero e proprio libro ma è appena all’inizio. Si dice tranquillo e a sentir raccontare la sua quotidianità durante la guerriglia si capisce il senso di una pace ritrovata. D’altronde è un uomo che è morto e risorto nel vero senso della parola.FLM_7294

“Durante i diciassette anni nelle FAR non ho mai visto la mia famiglia. Per ragioni di sicurezza avevo cambiato nome, con un nome di battaglia – racconta – dopo qualche tempo dissero ai miei cari che mi avevano ucciso, tutto il villaggio passò nove giorni a lutto, dopo un anno celebrarono il mio primo anniversario di morte. Dopo gli accordi di pace, nel 1996, tornai a sorpresa. A mia madre quasi venne un infarto, mio fratello mi ha abbracciò e mi chiese: sei di questa vita o sei dell’altra?”.

_MG_0514Eugenia, che per Amka si occupa anche di accogliere i giovani volontari che arrivano ogni estate dall’Italia, racconta di uno dei progetti attivi; si chiama Dejando Huellas, che significa lasciando orme. Si tratta di un gruppo di nove donne che durante la guerriglia avevano grandi responsabilità; dalla logistica, alla difesa, fino all’infermeria e al comando. Riposte le armi erano profondamente emancipate ed autonome, “molto più auto-sufficienti e capaci rispetto a quanto la società tradizionale guatemalteca permette” dice Eugenia “qui per quattro anni consecutivi una donna è stata presidente della giunta direttiva di Nuevo Horizonte e non è raro vedere padri cullare i propri figli, lavare i piatti o preparare la comida”.

Dejando Huellas lavora da anni con le donne di diverse comunità indigene del Petén; cerca di incoraggiarle a organizzarsi e ad avviare attività imprenditoriali.

Il modello Nuevo Horizonte funziona tanto da essere diventato un modello per altre comunità svantaggiate; i “pionieri” della comunità vanno in giro per esportare la loro idea, aiutano i contadini indigeni a conoscere i loro diritti, organizzano corsi e creano una rete di contatti che ha già realizzato degli orti comuni.

Nuevo Horizonte è anche un punto di riferimento politico per le altre comunità. Quest’estate è arrivata una telefonata perché quattro ragazzi erano stati uccisi a Semococh, nel Municipio Chisec. “E’ stata la Polizia Nazionale” afferma Jorge Mario raggiunto al telefono dalle persone di Nuevo Horizonte. “Sono arrivati circa mille poliziotti per eseguire tre ordini di cattura, inclusa quello della signora Ana del Carmen del Cid, accusata di far parte del CODECA (organizzazione campesina e chiede la nazionalizzazione dell’energia elettrica)”. La signora è stata portata via senza un regolare mandato e sua figlia, minorenne, sarebbe stata malmenata. La comunità ha cercato di ostacolare il fermo e la reazione è stata violenta, a colpi di fucile.FLM_7550

La fine della guerra civile e gli accordi di pace non hanno reso il Guatemala un paese giusto, chi vive a Nuevo Horizonte lo sa bene. Fernandez dice che lui continua a lottare e a resistere però ha cambiato il metodo. Tra le mani gira e rigira un limone e dice che la comunità funziona perché “siamo uniti dallo stesso amore per la rivoluzione, dal senso della giustizia e dalla solidarietà”.

pubblicato il 4 novembre su http://quotidiano.repubblica.it/rsera/

Barcolana, tutta la vela che c’è

StartLa leggenda vuole che già nel ‘700 i pescatori triestini tornassero in porto correndo tra le onde, facendo a gara a chi arrivava prima. Una competizione dettata dalla necessità: chi primo arriva più pesce vende. Secoli dopo quello stesso golfo è diventato lo scenario della regata più affollata d’Europa. Una gara tra scafi senza regole complesse a parte quella di avere una barca a vela. O di essere così bravi, o simpatici, da riuscire a trovare, anche all’ultimo, un imbarco. Grande o piccola, in legno o in carbonio, veloce o lentissima non importa: “basta che galleggi”, è questo il motto della Barcolana, regata arrivata alla sua quarantaseiesima edizione. E’ l’appuntamento velico più popolare d’Italia. Tra le oltre duemila barche che partecipano, con un equipaggio che si aggira intorno alle 25.000 persone, c’è chi ricorda quasi tutte le tappe della storica regata come Commodoro Giorgio Brezich. Presente dalla seconda edizione della Coppa d’autunno, l’altro nome della regata, le ha viste tutte ed ha anche vinto più di una volta. Le sue vittorie più belle sono forse quelle a bordo del Nibbio uno scafo del 1923 ancora in splendida forma che apparteneva a Brunetto Rossetti, memoria storica del mare, a metà tra il pittore e il marinaio. “La Barcolana è una vera e propria ammucchiata” racconta “è una giornata in mare, come una scampagnata: alcuni competono seriamente, altri suonano, cantano e bevono a bordo”. Uno degli avversari del Commodore Brezich fu Sergio Morin, calciatore velista che si divideva tra l’Inter, il Napoli e il mare. Barcolana Classic - Coppa ProsettoLe storie della barcolana si tramandano tra i pontili dove quotidianamente si pratica una vela meno scintillante ed esibita di quella di Porto Cervo o della Costa Azzurra. Sulla linea di partenza che va dal Faro della vittoria al Castello di miramare – così affollata da vantare anche un record in collisioni e danni – ci sono passati tutti, dai campioni dell’America’s Cup a volti meno noti. Si incontrano in mare, dove non c’è differenza di stazza, casta o religione e le regole sono decise solo dal vento (la famosa Bora triestina che non fa sconti a nessuno). Era il 1987 quando il Cicio, soprannominato Gesù bambino perché era l’unico tra i lavoratori del porto a non bestemmiare mai, sfidò con un barchino di otto metri il Moro di Venezia. Vinse il secondo che però peccò in fair play non dando al Cicio la precedenza che gli spettava. Solo scuse ufficiale e un giro al bar convinsero il Gesù del porto a non fare ricorso e a mandare a monte la vittoria del Moro.

StartArrivano da tutto il mondo per la Barcolana, sono industriali con l’hobby della vela o campioni come il neozelandese Russell Couts, hanno partecipato nomi storici della marineria come Cino Ricci ma le rotte più belle sono quelle piccole che sanno di ore in cantiere a riparare o costruire il proprio legno fedele. Lido Stabile faceva il camionista e in un incidente perse l’uso delle gambe. La moglie era disperata perché l’handicap non gli aveva fatto mollare il timone e usciva in mare con il suo cane come mozzo, anche se la barca si chiamava Gatto Romeo. Meno di otto metri di scafo e quel memorabile anno, il 1978, in cui quasi senza accorgersene, rimase incollato, in regata, ai campioni olimpici più blasonati.

Articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano giovedì 1 ottobre

Intervista a Andrea Mura, campione sardo degli oceani

_DSC8279Faccia segnata dal sole e dal vento, sorriso soddisfatto di chi ha consacrato la vita a una grande passione. Andrea Mura, il primo velista italiano a vincere la storica Route du Rhum, è già in Francia, al porto di Saint Malo, con la sua Vento di Sardegna, un Imoca 50, pronto a bissare il successo di quattro anni fa. Il velista sardo, classe 1964, il 2 novembre taglierà la linea di partenza della regata in solitaria che attraversa l’Atlantico fino a Point-au-Pitre, in Guadalupe, nata dall’idea di pubblicizzare il rum e messa in atto poi da Michel Etevenon, produttore di spumante. Ma ha già in mente il prossimo storico traguardo, la Vendée Globe 2016, il giro del mondo in solitaria e senza scalo.

Conosciuto dal grande pubblico come randista sul Moro di Venezia di Paul Cayard, nel 2013 ha trionfato alla mitica Ostar, una delle più dure regate transatlantiche in solitario di sempre. Non male per un velista che ha iniziato bambino navigando davanti al Poetto, ha investito tutti i suoi risparmi nel sogno di andare per mare e ancora oggi, ogni tanto, quand’è in mezzo all’oceano in burrasca gira video da postare su Youtube e si chiede: “Cosa ci faccio qui? Non potevo restarmene a casa, a cena con gli amici?”

Dopo la Route, quindi ci sarà un’altra regata. E non una gara qualunque…

La Vendée Globe è il sogno di ogni velista, sono ancora incredulo. È una sorta di consacrazione definitiva. E ho una barca nuova, un imoca 60. In pratica accedo al top level, come un pilota che arriva in Formula 1.

Il 2 novembre parte la Route du Rhum, competizione già vinta nel 2010. Qual è la sfida di questa nuova edizione?

Bacchettare i francesi! Sono convinti che il mondo della vela inizi e finisca in Francia. Ma non è vero e più volte si sono dovuti ricredere. Poi siamo granitici noi sardi. Abbiamo una tradizione, anche nautica, che in pochissimi possono vantare, mi vengono in mente i neozelandesi. Quattro anni fa c’erano più incognite, ora sono più consapevole. Sono un agonista puro e gareggio per dare il meglio a bordo di Vento di Sardegna, la mia barca, che ormai ha 15 anni ma che continua ancora a stupire per le prestazioni nonostante l’età!20101107105751(2)

Da dove arrivano i fondi per partecipare a competizioni così importanti?

Ho speso tutti ma proprio tutti i miei soldi per andare in barca. Ho messo sul baratro la mia vita economica e la mia vita in genere, avrei potuto finire in mutande a bussare alla porta dei miei come un quattordicenne, invece oggi il coraggio di assumere quel rischio mi ha ripagato. L’investimento iniziale è sempre il tuo poi, in alcuni casi, per fortuna, dei soldi arrivano. In questo caso sono stati la Regione Sardegna e un pool di sponsor privati a finanziare in parte la mia partecipazione alla regata.

Sul tuo scafo ci sono disegnati i quattro mori, il simbolo della Sardegna, la tua terra. Perché questa scelta?

Il mio progetto ha uno spirito sportivo e umano, io non ho nessun brand da pubblicizzare, anzi, se ne ho uno è solo quello della Sardegna. Quando penso allo sfruttamento della mia terra dai poligoni alle industrie inquinanti soffro in silenzio. Nel mio piccolo promuovo l’isola perché credo che la carta vincente sia il turismo ma è una conversione difficile che non avviene per mancanza di cultura.

_DSC8100Come era l’Andrea bambino che scopriva la vela, qual è il tuo primo ricordo “marino”?

Le uscite in barca al Poetto, la spiaggia di Cagliari. Mi manca quella spensieratezza, prendevo l’amichetto e lo scafo che mi capitava e mi buttavo in mare. Senza preoccupazioni. È quell’età bellissima in cui devi pensare solo a strappare un sei a scuola. Piano piano però con quelle uscite per gioco cominciavo a voler “spingere”, ad andare sempre più forte e a cercare la regolazione perfetta. Così è cresciuto uno spirito più agonista.

Nel libro in cui racconti la Route du Rhum del 2010 scrivi che sei “andato oltre la paura”. Cosa si prova in oceano? Cosa si pensa?

_AS79450Cosa ci faccio qui in mezzo? Non potevo restarmene a casa, a cena con gli amici? L’ ho pensato più di una volta in mezzo alla burrasca, al buio, solo tra onde e vento impetuoso. L’anno scorso durante la Ostar ho preso cinque burrasche furiose stile “Tempesta Perfetta”. Fuori c’erano sei gradi centigradi. Poi però le affronti con coraggio e intelligenza e una volta che ti lasci alle spalle una simile difficoltà smetti di avere paura. Adesso ho una paura diversa che è più un timore sportivo. È quello di rompere la barca o urtare una balena, insomma fare un danno irrecuperabile che ti fa perdere la regata. Però in mare ci sto bene perché lo conosco. Come un tuareg vive nel deserto io vivo tra le onde.

Articolo pubblicato mercoledì 1 ottobre su http://quotidiano.repubblica.it/edicola

Dove i “galeotti” lavoravano l’oro bianco di Tarquinia

DSCN1148“Sul sale non nasce niente, muore tutto” dice Angelo che tutti chiamano il salinaro. “Ero agente verificatore titolare per essere precisi” spiega mentre stende i panni su un filo dietro l’edificio principale; prima le lenzuola bianche poi qualche abito, lentamente, mentre racconta la storia della salina di Tarquinia. Entrando nella riserva naturale, si lasciano alle spalle le automobili dei bagnanti e si arriva al borgo dei salinari, a quaranta chilometri circa da Viterbo. La rete che delimita la strada lascia aperti degli squarci luminosi sull’acqua bassa come una laguna. In fondo, il cancello d’ingresso della salina. Le case sui lati, una chiesa piccola e nascosta, il serbatoio dell’acqua e tutt’intorno le vasche del sale. E’ un lembo di terra a separare il mare, sconvolto e variato dall’umore dei venti, dalle vasche d’acqua calma su cui volano fenicotteri e altri uccelli. La costruzione risale al 1803, la forza lavoro era costituita dai forzati che arrivavano a piedi, incatenati, dal vicino bagno penale di Porto Clementino. Accompagnati dalle guardie carcerarie, che in dialetto sono dette “guardaciomma”, percorrevano la strada in lunghe file. Poi, quando l’attività fu avviata, lavorarono insieme agli operai liberi. Solo nel ‘900 fu costruito il borgo con piazza e chiesa, epicentri dell’aggregazione sociale del piccolo centro operaio.DSCN1146

“Il sale viene bene se c’è tramontana che è un vento secco” spiega Angelo “non ‘sto scirocco umido” dice guardando verso sud est là dove arriva il vento, preoccupato come se ci fosse ancora del sale da lavorare sotto l’acqua immobile delle saline. “La salina si divide in due zone quella salante e quella evaporante” spiega con la pazienza che si concede ai profani, e prosegue: “La raccolta avviene una volta l’anno, si chiama la cavata del sale, si faceva con delle pale prima della meccanizzazione e si prendeva forza lavoro stagionale in più, in quel periodo”. Ma la pala non era una pala qualunque, era “alla francese” – chissà perché questo nome – caratterizzata da una lama sul bordo così da consentire di “incarcarla” sotto il sale e sollevarlo. Un lavoro faticoso, dei veri “lavori forzati non come adesso che i detenuti stanno sul letto a guardare la televisione”, dice il salinaro. L’acqua salata cuoceva la pelle e dove non arrivava quella ci pensava il sole.

“Facevamo tutto noi eravamo completamente autonomi dai cancelli ai legni” spiega Angelo. La salina era come una piccola industria. Un “gioiellino” la chiama lui, le diverse officine erano incaricate di produrre tutto quello che occorreva. L’edificio di mattoni rossi con un segnavento che gira senza sosta sul tetto, era l’officina meccanica. Sbirciando dal vetro rotto ci si ritrova in un ambiente intatto con brugole e chiavi allineate e una bicicletta mai finita di aggiustare. In mezzo al piazzale c’è l’avannotteria dell’Università della Tuscia con vasche di ogni dimensione abitate da pesci e crostacei destinati alla ricerca o al ripopolamento. Un edificio nuovo che prima era il magazzino articoli diversi con tutto ciò che occorreva e che ora ne copre altri ormai in disuso, con il tetto crollato e l’erba che fa da tappeto ai pavimenti divelti. Due furgoni parcheggiati perfettamente allineati arrugginiscono ma mantengono ancora, seppure sbiaditi, i loro colori. “Quella là dietro era la falegnameria che andò a fuoco per un corto circuito” dice Angelo indicando le mura. Il legno è una parte fondamentale della salina perché gli argini, quelli più antichi, sono costruiti così, con tavole e paletti. “Il legno è l’unica cosa che puoi mettere nell’acqua salata, se ci metti il metallo o il cemento, il sale lo mangia. Invece il legno no perché si integra, isola e resiste” spiega. Ma il cuore della salina è l’edificio che accoglie il fortunato visitatore che si fa aprire il grande cancello d’ingresso chiuso a chiave. L’orologio è fermo e sopra svetta una torre di vetri rotti. E’ l’impianto di condizionamento e sali scelti, dove il sale veniva lavorato asciugato ed essiccato poi impacchettato in scatoloni da venti chili o in pacchetti da mezzo chilo. “Noi facevamo solo il sale grosso e il cosiddetto macinato che è una grana intermedia tra sale grosso e sale fino” precisa Angelo.

IMG_3408L’acqua madre era fondamentale, contenuta in una cisterna, doveva essere sempre a ventisette gradi, poi dei tubi con delle coclee la portavano su all’ultimo piano. Lì si faceva un altro lavaggio poi con l’ultima essiccazione l’oro bianco si sbiancava del tutto, fino a brillare. “L’impacchettamento lo faceva tutto la macchina con dei bicchierini dosatori che salivano su in cima, era molto bello da vedere” ricorda Angelo forse con un po’ di malinconia. Ne uscivano i pacchi pronti per le consegne con la scritta “sale marino scelto”. “Prima si trasportava anche via ferrovia, c’era un binario che arrivava proprio davanti all’impianto, poi è stato dismesso. Prima ancora lo facevano i facchini, avanti e indietro sulle spalle mentre alla fine arrivavano i camion” racconta il salinaro. Nel 1997 la salina ha chiuso, Angelo è stato pensionato nel 2011. Non controlla più la logistica di quella piccola industria del sale che dava tanto lavoro. “Prima qui a Tarquinia avevamo tutto dal pastificio alla salina, dalle fabbriche di conserve fino alla cartiera, ora non c’è più nulla. Prima venivano da fuori per lavorare da noi perché non bastavamo noi di Tarquinia” racconta. Si era pensato anche di riconvertire la salina in impianto termale come hanno fatto in Romagna. “Era venuto un tedesco, lo avevo portato sopra alla torre dell’impianto sali scelti, disse che in due anni le terme potevano aprire ma non se n’è fatto nulla. Eppure pare che quest’acqua curi la psoriasi” dice Angelo poi raccoglie gli ultimi panni stesi e se ne va. Non supervisiona più nulla, se non edifici che poco a poco si consumano, ma ne conosce la storia e raccontandola li tiene in vita, ancora per un po’.

Qui il video

Pubblicato su RSera il 4 settembre 2014, ultima puntata dedicata ai luoghi abbandonati.

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Collegno, l’inferno dei matti. Una storia di fiori e torture

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Foto di Emanuele Deiana

“La sequoia è la pianta che diventa più grande al mondo. Questa l’ho piantata io”. Piero Baudissone indica un albero un po’ malmesso. Il signore dai capelli bianchi e dalla cadenza piemontese è il giardiniere che per più di trent’anni ha curato il verde del manicomio di Collegno. Bisogna uscire dal centro di Torino e andare verso ovest. Nel mezzo della periferia, varcato un ingresso, si apre un parco ben curato di circa 400.000 metri quadrati. Non sembra di trovarsi in un luogo che un tempo accoglieva 5.700 pazienti perché l’antico edificio che ospitava la direzione è stato riqualificato così come la chiesa, ormai sconsacrata, resa un luogo per mostre ed eventi culturali.

“Questa era la parte delle ville” spiega Piero passeggiando “c’erano gli ammalati più ricchi e poi una sezione femminile e un muro divideva questa zona da quella dei reparti”. Le strade che percorriamo sono le stesse sulle quali passava con il suo trattore. “Io ero il trattorista per essere precisi” racconta. Il giardiniere si guarda intorno e si ha l’impressione che, insieme al presente, veda anche il passato: “Qui dentro era come essere in un paese”, sottolinea. Rivede i pazienti che lavoravano al mantenimento di quella specie di città nella città, gli infermieri e i dottori e, lentamente, con la precisione che è virtù di certe memorie di ferro, ci offre il privilegio del racconto.Alienati uomini collegno

Il Regio Manicomio si trasferì in questo spazio, che oggi si chiama Parco Generale Dalla Chiesa, quando per far fronte al problema del sovraffollamento degli istituti, nel 1851, si propose la costruzione del nuovo ospedale. L’area apparteneva ai frati Certosini che offrirono l’occupazione gratuita e temporanea dello spazio. Quando quattro anni dopo le corporazioni religiose furono soppresse, il manicomio si espanse, furono costruiti nuovi edifici ed anche una colonia agricola. “Producevamo cinquanta quintali di verdura al giorno, eravamo aiutati dagli ammalati perché per loro era una forma di terapia”, ricorda Piero. Alcuni, tra questi, gli sono rimasti impressi più di altri.

DSC_1138Renato lavorava in serra ed era velocissimo, era capace di travasare tra le mille e le mille e cinquecento piantine in un solo fine settimana. Ma era uno che bruciava i soldi nel vero senso della parola; era prevista una piccola mancia ma lui appena la riceveva la incendiava” spiega Piero che di stranezze ne ha viste tante. “E poi sotterrava i regali che gli facevano i familiari perché era convinto che lo volessero avvelenare” prosegue. Capitava infatti di trovare delle bottiglie di liquore sepolte negli orti. A Piero e ai suoi colleghi bastava un colpo d’occhio per individuare la terra smossa e così recuperavano quei doni rifiutati. A quel punto Renato accettava volentieri un goccio di Vov, dimenticandosi del complotto familiare ai suoi danni.

Dove oggi c’è un campo da basket affollatissimo, prima sorgeva una vasca con l’acqua per innaffiare i terreni. I muretti sono cosparsi dalle scritte dei writers e Piero non può far a meno di notare che quello “sporco” ai suoi tempi non c’era. I reparti sono la zona più decadente del parco, la struttura ha la freddezza geometrica di un luogo di detenzione, sono tutti collegati come si vede sulla planimetria e anche il signor Baudissone lo conferma: “Ci sono passaggi sotterranei attraverso i quali si arriva ovunque” e poi racconta come “gli ammalati” – lui li chiama sempre così – avessero dei segnali in codice per avvertirsi l’un l’altro quando passava il Professore. “I corridoi e i giardini si svuotavano in men che non si dica e ognuno si faceva trovare calmo ed ubbidiente nella propria stanza” ricorda stupendosi ancora di come ciò fosse possibile.

Il Professore in questione è Giorgio Coda soprannominato “l’elettricista” perché ricorreva a punizioni esemplari che andavano dall’elettroshock alla pratica del legare i pazienti, anche giovanissimi, a caloriferi roventi. Il dottore esercitò a Collegno dal 1956 al 1964 poi dieci anni dopo fu processato grazie ad una psicologa che denunciò le sue pratiche inumane. Nel 1977 Prima Linea, organizzazione armata comunista, ferì il il professore con un colpo al ginocchio, condannandolo così una seconda volta. Un anno dopo l’attentato verrà approvata la legge Basaglia che chiuderà, almeno in parte, il capitolo degli ospedali psichiatrici.

Dietro ogni muro c’è una storia, nel reparto riservato ai pazienti pericolosi un infermiere era stato legato alle travi del soffitto. Era stato lasciato là, appeso, mentre in quattro cercavano di scappare ma l’alto muro che circonda tutto il complesso lo impedì.

Proprio in quel reparto oggi c’è il Mezcal, un’occupazione abitativa anarchica, che organizza laboratori creativi, proiezioni e serate. Gli occupanti, che vivono lì dal 2006, portano avanti anche una campagna di informazione sull’abuso di psicofarmaci raccontando così anche la storia di qDSC_1134uelle mura che hanno ospitato i cosiddetti “pazzi criminali”, condannati alla sofferenza.

Proseguendo tra i viali del parco, tra famiglie stese al sole e partite di pallone sull’erba, si arriva alle lavanderie. Sbirciando dalle finestre si intravedono gli interni e in alcune stanze sono cresciute delle piante. La grande lavanderia a vapore venne edificata nel 1897, venivano lavati 97.000 capi al mese e sui pavimenti correvano delle rotaie, come nelle miniere, per trasportare la biancheria. Era un lavoro pesante ma necessario. Oggi un’ala di quell’edificio è tornata a nuova vita e conserva il nome di Lavanderia a Vapore ed è un centro d’eccellenza per la danza che accoglie workshop ed eventi. “Laggiù invece c’è villa triste…” dice Piero sorridendo, all’inizio ci si chiede il perché di quel nome poi quando da dietro la curva appare un piccolo edificio a pianta quadrata, posto al limite del parco, tutto appare chiaro: è l’obitorio. Si narra che nel piano interrato venissero conservati organi sotto formalina, appartenuti a qualche ospite poco fortunato. La sua posizione periferica l’ha resa bivacco di senza dimora, un’occupazione e poi, dopo la riqualificazione, un centro per l’assistenza ai tossicodipendenti che tiene una stanza sempre aperta. “Avevamo anche dei casi di mariti messi dentro dalle mogli” afferma Piero e poi spiega che alcune signore con conoscenze nelle alte sfere della città, si sbarazzavano del consorte facendolo diagnosticare come pazzo e da rinchiudere, e scappavano così con l’amante.

E se l’aneddoto strappa un sorriso non bisogna dimenticare che per molti anni, non poi così distanti dall’oggi, i comportamenti che troppo si discostavano dal comune senso di normalità, venivano bollati come devianti e socialmente pericolosi. E molte vite furono così rovinate. Nei giardini c’era il “salto del lupo” e anche su questa definizione viene in aiuto la memoria di Piero che spiega che si trattava di un fossato scavato proprio sotto le recinzioni, così da rendere impossibile il salto verso la libertà.

La squadra di pazienti lavoratori più numerosa era quella che si occupava del verde ma c’erano anche i fabbri, i tessitori, i tipografi, gli elettricisti, i calzolai, i materassai e i decoratori. Spesso divampavano incendi, casuali o dolosi, e alcuni tetti sono ancora distrutti. Si poteva produrre di tutto dentro alle mura di Collegno, addirittura il pane e macellare la carne. Costeggiando gli edifici che conservano ancora le insegne del mestiere che vi si praticava all’interno, si arriva su un grande piazzale. Al posto delle auto parcheggiate c’era un vascone proprio per spegnere le fiamme il prima possibile. “Un giorno ci dissero che dovevamo prosciugarlo e noi eseguimmo. Era pieno di pesci: ne presi cento chili. Però sapevano di terra allora li abbiamo messi nelle vasche dove si fanno bere le mucche. Li abbiamo lasciati li per due mesi per farli sciacquare e poi erano buoni” spiega il giardiniere prima di girarsi e scorgere il luogo dove passava le sue giornate: le serre. “Erano il mio regno” dice con un po’ di malinconia “ci piantavamo tutti i tipi di fiori che servivano per le aiuole del parco oppure per gli uffici. A un certo punto mi avevano dato un fiorino e andavo in giro per gli ospedali ad Avigliana, Susa, a prendere i fiori secchi per sostituirli con quelli freschi”. Ora lì dove c’erano le serre c’ è un prato all’inglese che è l’ingresso all’orto curato da un laboratorio di agricoltura sociale. Poi c’erano i maiali e le stalle, c’era un cavallo che era di un paziente e lo hanno tenuto là, anche lui come il padrone, finché entrambi sono morti. “Era un ammalato che girava con una bici e una muta di cani che lo seguiva ovunque” ricorda Piero. “Era abbastanza tranquillo ma quando gli parlavi dovevi guardarlo negli occhi se no s’innervosiva e poi se diventava pallido era meglio scappare!” e poi continua confessando: “Non ho mai avuto problemi con gli ammalati perché trattavo tutti con rispetto”. Alla domanda se vorrebbe ancora lavorare lì nel manicomio Piero risponde subito “si, perché vorrebbe dire che avrei trent’anni di meno”. Si attraversano i chiostri dove la Rai ha girato la mini serie televisiva sullo smemorato di Collegno, la vicenda giudiziaria sulla misteriosa identità del signor Bruneri – Cannella, professore di filosofia o temibile anarchico. Un lungo viale di tigli e un acero enorme conducono verso l’uscita di questo luogo che per molti fu un inferno in terra ma per Piero fu un giardino da coltivare con fiori colorati.

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Articolo pubblicato il 28 agosto su http://quotidiano.repubblica.it/rsera

E’ il terzo articolo di una serie dedicata ai luoghi abbandonati che uscirà ogni giovedi su Rsera: il primo Archeologi delle rovine, il secondo Lo Splash Down e l’ultimo sulle saline di Tarquinia

 

Lo Splash Down ricorda la movida sul mare di Anzio. Storia della palafitta che guarda Ponza

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foto di Arianna Gravina

“Là un tempo era bello, quando si ballava…”

La signora bionda, del bar Maraschino, sulla Riviera Zanardelli di Anzio, indica una struttura abbandonata mentre serve un caffè dietro al bancone. É grande, bianca e ormai avvolta dalla ruggine.

La chiamano Splash Down o Ex veleria, nomi che raccontano la lunga storia di un edificio ormai chiuso da una recinzione, per tenere alla larga i curiosi, i fotografi con il fascino per la decadenza e i ragazzini che però ancora si arrampicano su quel tetto pericolante che guarda il mare. Apre i battenti, con il nome di Splash Down, nel 1969 ad opera di Angelo Lombardi “L’amico degli animali”, il primo divulgatore scientifico dell’era televisiva italiana. Quello che dopo essere stato cacciatore di belve in Somalia, aveva portato davanti agli occhi dei telespettatori gli animali di terre esotiche. Chi guardava il suo programma, magari da bambino, ricorda le celebri frasi “Buonasera amici dei miei amici” e il secco comando al suo aiutante di colore “Andalù portalo via” e sotto con un altro esemplare. Lombardi ne fece un posto a metà tra un acquario ed un museo. Erano gli anni splendenti della riviera di Anzio: quando quella a levante era per le seconde case dei romani in vacanza mentre a ponente c’erano i locali, i portodanzesi. Ma la vera custode della storia dello Splash Down è Elisabetta una bella signora bruna che prepara alici marinate e pasta allo scoglio, in un piccolo chiosco incastonato tra i cantieri nautici e le barche del porto. Colma la curiosità di chi non è del posto e esaudisce il desiderio di sentirsi narrare le vicende di quel relitto della terra ferma. “Io là dentro ci ho festeggiato il mio compleanno dei dieci anni”. Mentre parla indica le foto, un po’ sbiadite, attaccate accanto al bancone. Su una c’è anche una freccia e una scritta: “Questo è lo Splash Down”.P1030810

Poi quando quel posto è diventato un locale, si sono avvicendati diversi gestori. Alcuni lavoravano bene, la vista sul Circeo aiutava, ma altri hanno avuto problemi. “C’erano risse in continuazione. Anche una sparatoria mi sembra. E poi chiudevano e riaprivano poco dopo” racconta un signore con una tuta da lavoro e i capelli bianchi, indicato da due ragazzi alle prese con la riparazione della vetroresina di una vecchia barca. Perché è una storia lunga e c’è bisogno di qualcuno che l’abbia avuta sotto gli occhi per tanto tempo. Arrampicata su piloni di cemento ormai avvolti da alghe e crostacei, la struttura attira lo sguardo; alcuni si indignano perché rompe l’orizzonte, altri vi rivedono la vita che l’ha attraversata negli anni d’oro quando la riviera era affollata e con la stagione estiva mettevi da parte denaro sufficiente per tutti l’anno.

P1030801Nel film La Mazzetta del 1978 con Nino Manfredi, insieme ad Ugo Tognazzi, si riconosce l’interno dell’edificio, è un ristorante dove l’attore è alle prese con un enorme piatto di spaghetti al nero di seppia.

“Ci hanno girato tanti film” dice Elisabetta che adesso guarda lo Splash Down con un misto di tristezza e affetto. “Un giorno io e mio marito siamo andati a Follonica, là c’è una struttura molto simile. Siamo rimasti impressionati dalla somiglianza ma soprattutto ci siamo detti che i toscani erano riusciti a far funzionare un posto così particolare: è un hotel -ristorante”. Infatti loro ci hanno mangiato ed anche dormito, sentendosi probabilmente un po’ a casa.

Guardando bene tra l’intonaco scrostato e i rimasugli di infissi si legge ancora una scritta fatta alla bell’e meglio con un nastro: “Veleria e tappezzeria”. Quando l’edificio ha chiuso la parentesi con la movida da spiaggia, è stato adibito a laboratorio per le vele. Chi ci viveva però non pagava nessun affitto; aveva occupato abusivamente una casa che è il sogno d’ogni romantico. Con la famiglia aveva sistemato l’ala dell’edificio più vicina alla terraferma. E lì faceva il suo mestiere: il velaio. C’è chi dice che ci abbia abitato più di venti anni, chi non conserva un buon ricordo e preferisce non parlarne. E chi con una certa distanza afferma “Ah ma era campano non era di Anzio”.

Poi lo sgombero e un’indennità enorme da pagare e la veleria ha chiuso i battenti per sempre. Tra i forum di surfisti c’è ancora chi consiglia di portare le vele a riparare da Dino. “Sta proprio sul porto, la vedi subito perché è l’unica costruzione sull’acqua” si legge in un post un po’ datato.

Dopo lo sgombero la Regione ha recintato l’area, la Capitaneria di Porto ha emesso un’ordinanza che vieta la navigazione nelle acque circostanti. Ma l’ex veleria rimane lì. Indigna ma allo stesso tempo affascina. Forse Elisabetta ogni tanto ha fantasticato di spostare il suo chiosco tra quelle mura e farne un grande ristorante. Qualcun altro avrà pensato che sarebbe il posto perfetto per una scuola di vela su piccoli scafi, con quel vento che ad Anzio non manca mai.

Ma la salsedine e il tempo hanno reso l’immobile praticamente irrecuperabile. “Prima o poi dovranno demolire ma per il momento non ci sono i soldi” spiega Elisabetta. Così l’ex veleria aspetta. Ospita le scritte colorate dei writer o qualche audace “ti amo” scritto con la bomboletta. E guarda l’orizzonte, come la signora del Maraschino che facendo due conti con l’età potrebbe esserne la sorella maggiore. Entrambe guardano ad ovest dove ci sono Ponza e Palmarola, due isole dove nessuna delle due è mai stata e che si vedono solo nelle giornate di brutto tempo.

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Articolo pubblicato su http://quotidiano.repubblica.it/rsera

E’ il secondo articolo di una serie dedicata ai luoghi abbandonati che uscirà ogni giovedi su Rsera: il primo Archeologi delle rovine, i prossimi sull’ex manicomio di Collegno e le saline di Tarquinia