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“La ricreazione è finita” di Dario Ferrari, cambiare il mondo non è che un tentativo

La ricreazione è finita è un libro da leggere per diversi motivi. Provo a metterli in fila in un modo semplice senza tirare in ballo troppa altra letteratura. Perché ho sonno e perché mi sono sempre un po’ sentita una Marcello Gori alla quale tiravano fuori titoli capitali di teoria della letteratura, di saggi, di altri autori imprescindibili mentre il mio percorso di studio e di piacere nella letteratura è sempre stato più caotico e casuale, banalmente dettato da ispirazioni del momento, da consigli di gente più simpatica di altra.

La prima osservazione è generazionale, per così dire, Dario Ferrari a occhio e croce sta sulla quarantina e finalmente sfronda gli anni di piombo, delle lotte armate e non, di quella retorica che credevo mi avrebbe circondato per sempre. Abbiamo ascoltato genitore che “ah io nel’68” e storie di botte e sequestri e tentate rivoluzioni avvolte in un’epica che ne ha distorto il senso, forse il senso storico, certamente quello letterario. Qui non c’è secondo me quel fascino del terrorista come pirata moderno, si racconta dei Ravachol che sono così un po’ approssimativi e confusionari, che si divertono e poi teorizzano, che fanno saltare un carro di carnevale ben attenti a proteggere un bimbetto, dei “Giusti” insomma ma “normali”.

Però Tito e i suoi amici sono credibili, tentennano, sbandano nell’eroina – che pure quella su altro che poesia – amano e litigano. Cercano di cambiare il mondo? Sì ma anche un po’ per divertirsi. Insomma la prospettiva di Ferrari, se ben la interpreto, è quella di chi guarda questi personaggi innamorarsi di una idea e un po’ se ne innamora pure lui perché questo serve per campare, con un po’ di ideale, sicuramente a quella certa età almeno. Però poi non ne fa una dottrina, che sia la lotta o il dottorato.

C’è la narrazione dell’Università che fa molto ridere, dipinge questi baroni ex lotta continua finiti con codazzi di vassalli a sfidarsi a colpi di citazioni e aggettivi. Fa ridere ma c’è anche il personaggio che là in mezzo paga un prezzo alto, ed è spesso così, che in questi ambienti si soccombe senza spalle un po’ parate e una via d’uscita.

Ci sono i compagni di scuola, disoccupati, separati con figli a carico, che si consolano con bevute proporzionali alle delusioni. C’è Parigi città chimera tra biblioteche dalle procedure burocratiche impossibili alle manif. La mamma di una mia amica ha letto questo libro e ha detto che ben rappresenta la “vostra generazione inconcludente”. Ah bè grazie ancora vecchia guardia. Le rispondo che per concludere qualcosa bisogna vagare almeno un po’, tra libri, tesi, amori e città, e anche che cambiare il mondo non è che un tentativo, una Fantasima.

“Guardami negli occhi se mi vuoi ammazzare”, le mille vite di Ettore Fellegara

Ettore Fellegara, Presidente della sezione di Piacenza dell’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra, quando racconta della guerra è un fiume di parole. Ma un fiume grande, tranquillo, che accompagna la massa d’acqua, solenne ma al contempo leggero. Ettore sul palco ha raccontato le sue tante vite, di tutte le volte che è scampato per miracolo a bombardamenti ed esecuzioni. E poi mi ha regalato altro tempo ed altri racconti.

Nel maggio del 1944 Piacenza subisce vari bombardamenti, le vittime saranno oltre 300, Ettore una volta porta in salvo altri bambini, si buttano in un fosso e schivano le bombe, pochi giorni dopo fanno lo stesso ma stavolta Ettore rimane ferito e semisepolto dalla terra del fosso distrutto. Gli è andata bene perché spostandosi per aiutare una ragazza ferita non è rimasto nel punto in cui caddero più bombe. Lo hanno trovato il padre, lo zio e un cagnolino che gli stava sempre dietro, era ferito ad un braccio ma vivo. Ettore ha cercato più volte di spiegare la sensazione di essere anagraficamente un bambino ma di non sentirsi più tale a causa delle esperienze traumatiche che ha vissuto. Racconta che era un incosciente ma che lo faceva senza accorgersene perché così gli veniva, l’energia dirompente dell’infanzia e poi della preadolescenza lo ha portato a rispondere ai soldati, a dirgli “guardami negli occhi se mi vuoi ammazzare”, e in qualche modo lo ha salvato.

Quando sfidò con questa frase un soldato – che non avrà avuto neanche vent’anni – il colpo sparato lo prese a un braccio già ferito e si salvò di nuovo. Ettore ha guardato esecuzioni e corpi, ha avuto la morte sempre intorno e mi dice che dopo aver visto i soldati freddare un ragazzo di 14 anni, accusato di essere collaboratore dei partigiani, non è stato più lo stesso. A questo ragazzo fu detto di correre, Ettore gli disse di non farlo ma quello partì e dopo 4 metri gli spararono ammazzandolo.  “Dopo aver visto questa cosa ero un’altra persona, è come se fossi morto e poi rinato diverso”. E racconta che per tutta la vita si è chiesto perché le persone ridessero, perché tutti noi sebbene coscienti del male che c’è al mondo poi ridiamo e scherziamo.

“Mi sentivo sbagliato, pensavo: se tutti ridono dovrei farlo anche io. Ma non mi veniva e poi ho capito perché. Tante cose che ho visto non le voglio raccontare, in tanti mi hanno detto di scriverle ma io ho deciso di parlare solo di me e di alcuni episodi. Non voglio stare a dire quello ha fatto questo e quello quest’altro, non ha senso dire ora chi ha fatto bene e chi ha fatto male.

L’8 settembre Ettore aiutò dei soldati a trovare vestiti borghesi per scappare, li aveva vestiti tutti quanti svuotando gli armadi di casa ma ne rimaneva uno ancora in uniforme. Allora Ettore ha iniziato a correre – una delle sue passioni – due chilometri e mezzo all’andata ed altrettanti al ritorno per spogliare uno spaventapasseri di un campo e consegnare quei quattro stracci al ragazzo e regalargli la libertà. “Era un ragazzetto con i ricci biondi, mi ha cercato poi anni dopo ma io non ho voluto incontrarlo”.

La famiglia di Ettore aveva terre agricole ed animali e quando tutti gli uomini della famiglia partirono in guerra lui rimase solo con il nonno. “Ora di uomini a casa ce ne sono due” gli disse il nonno ed Ettore racconta che si chiese chi fosse il secondo. Era lui, a 7 anni fu messo con un quadernino in mano ad annotare i nomi di chi arrivava a coltivare le terre, quante ore lavorava e quanto doveva essere pagato. “Mi chiamavano il signorino, che fastidio!”.

Era lui il capo ma a volte i soldati, o i partigiani, non ci credevano e allora uno stalliere interpretava la parte, altrimenti i soldati ridevano e non volevano neanche parlare con quel ragazzino, non era credibile che fosse lui il padrone. Prendevano gli animali e cose da mangiare, a volte distruggevano tutto, altre erano gentili.

Tra le tante vite di Ettore c’è anche quella in cui, considerato morto, fu coperto da un telo bianco e per fortuna una cugina alla ricerca dei parenti lo trovò urlando: “respira ancora!”. Adesso la sua vita è ancora un’altra ed è anche testimonianza, racconta perché non è riuscito a dimenticare, lo fa come può arrivando solo fino a un certo punto, altre cose – quelle più tristi – le ha lasciate scivolare via, come acqua che si mescola ad altra acqua e poi scompare.

Questo articolo è stato pubblicato su Pace & Solidarietà 2/2023 la rivista dell’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra – ANVCG

Amici. Pensierini sulla scia di un pezzo del NYT

Un giorno ho accompagnato una mia amica da uno sfasciacarrozze dove stava la carcassa della sua macchina incidentata, non era proprio soltanto un graffietto, la macchina era proprio sfondata e quel “botto”, si dice a Roma, era stato brutto. Lei era illesa così come i suoi occhiali scivolati sotto il sedile che erano la ragione per cui eravamo là nello sprofondo della Nomentana. Poi non mi ricordo come è andata forse lei ha pianto e forse pure io, certo me lo ricordo come un momento in cui mi sono sentita profondamente unita a lei, in un momento strano di paura, di sensazione di averla scampata per un soffio.

Oggi sul New York Times c’è un pezzo sull’amicizia che racconta come gli incontri tra amici siano meno romanticizzati: tutti sempre a parlare dell’incontro con il proprio partner – dove eravamo cosa facevamo, quanti anni fa – o il primo sguardo con i propri figli. Ma poca enfasi si concede a quell’innamoramento platonico proprio dell’amicizia. Eppure ci sono questi momenti cerniera, chiamiamoli così, felici o tristi, lontani o vicini, ancora chiari in testa o un po’ sfocati che capitano a tutte le età e che legano le persone, le fanno riconoscere come simili forse, ma non solo: fanno scattare quel legame che porta a un livello successivo.

Penso spesso ai miei amici e il pezzo di oggi mi ha fatto venire voglia di scrivere qualcosa di più personale del solito in cui mettere in fila qualche ricordo legato a questa sensazione di riconoscersi, conoscersi, scegliersi, chiamarsi e vedersi, una sensazione difficile da spiegare ma che forse attraverso gli aneddoti si può rendere meglio. Non a caso sotto a questo articolo del NYT ci sono centinaia di commenti con storie di amicizie. Molte fanno piangere.

In quella fase adolescenziale e post adolescenziale in cui siamo tutti un po’ matti, in cui sperimentiamo e prendiamo le misure con noi stessi spesso a spese degli altri, ho memoria di veri e propri innamoramenti amicali fatti di diari condivisi, notti sulle scalette di quartiere a parlare per ore per poi magari dimenticarsi, tralasciare, presi da una nuova scuola o un nuovo incontro.

In quegli anni osservavo le amicizie degli adulti, quelle di mia madre più che altro, fatte di inviti a cena, telefonate per ringraziare e dire che presto avremo organizzato noi, in un ping pong di ricambiarsi l’invito che ora capisco ma che all’epoca mi sembrava noiosamente borghese. Mia madre aveva un paio di amiche con cui si faceva anche grandi risate e credo fosse in reale confidenza, se ne andava in giro, al cinema e aveva grande cura per queste amiche, la ricordo vedere oggetti in vendita e dire frasi “ah questo piacerebbe tanto a Lei”. Le pensava, gli impacchettava regali e scriveva i bigliettini, le chiamava se non le sentiva da troppo tempo. Questa cura ora capisco quanto sia anche un impegno, una volontà di dedicarsi all’altro per non chiudersi, impigrirsi, far scolorire il legame. La metafora del giardino è trita ma efficace: se lasci che le erbacce coprano il prato ti dimentichi il colore di quel verde brillante.

Un’estate sono andata in Sardegna a fare un corso di vela, era la prima volta che partivo da sola, avevo 16 anni e il disco Celebrity Skin delle Hole registrato su una cassetta del walkman. Lì ho incontrato una delle mie amiche, uno dei primi ricordi è proprio lo snocciolare nomi di cantanti che ci piacevano, constatare che molti fossero in comune e quindi fare comunella. Sono seguite delle uscite in barca finite con un principio di congelamento e labbra blu, passaggi su una ape car in compagnia di un vecchietto che approfittava della piccola seduta del mezzo per starci appiccicato. E poi un trasferimento a Bologna dove lei, la mia amica grande, già studiava. Anni da coinquiline in una quotidianità fatta di grande studio e grandi feste: con il senno di poi un equilibrio davvero strano che mi ha insegnato a macinare, a finire sempre gli esami alla prima sessione e poi fare tirocini, lavori, partire e così via. Ma anche, sul coté grandi feste, a fare qualche passo in avanti con la timidezza, mi porto ancora dietro la sua voce che rompe il ghiaccio con gli sconosciuti: “bè come è?”.

Un giorno, anni dopo, ho detto a una mia amica guarda come faccio la verticale, poi lei ha provato a farla ma è crollata sulle braccia dando una gran capocciata. Tantissime risate, trasferte per onorare la regola di vedersi almeno una volta l’anno, un libro – il suo – che è un piccolo tesoro e che regalo a tutti i miei amici convinta che in qualche modo se uno è tuo amico lo sarà anche di quell’altro tuo amico che non conosce.

Non posso essere esaustiva, non voglio cadere nella pagina di diario, sono fortunata, sono piena di persone che amo e dalle quali mi sento amata ma nel senso di conosciuta nel mio profondo, apprezzata per il mio essere più vero e per le mie cazzate, anche. Lo sforzo della sincerità – perché è uno sforzo – ripaga lasciandoti intorno appunto quelle persone che hai ascoltato con abbastanza amore e attenzione da conoscere bene, così come hanno fatto loro. Le puoi chiamare e loro possono chiamarti, al telefono ma direi più “a raccolta!”. Chiamare a raccolta i propri alleati per sfogarsi o ridere o fare una cosa insieme, mangiare, traslocare, farsi un bagno al mare. Ed essere là in quanto alleato, per dire “c’hai ragione” o “ma sei impazzito”, “racconta un po’”, “in bocca al lupo”.

Un’alleanza che prende tante forme: tornare a Bologna per uno stinco di maiale, darsi un appuntamento a Rio de Janeiro o Copenaghen ma anche a piazza Sempione, ascoltare un audio su WhatsApp di cinque minuti, vacanze insieme, operazioni di emergenza con in mano un paio di lasagne pronte e i vestitini smessi dei propri figli. Farsi un piantarello sotto stress a lavoro perché smollare a volte è la cosa giusta da fare. Lanciarsi in operazioni culinarie/filosofiche di preparazione di marmellate di cipolle salvo poi dover rimbiancare la cucina. Decenni di fumetti per farsi auguri di vario tipo. Rispondere a dubbi o almeno provarci, mettere a nudo debolezze, ricordarsi i punti di forza.

La memoria vacilla ma il senso rimane: gli amici sono i nostri amori platonici, raccontiamoci questi incontri perché sono preziosi, teniamoceli al calduccio, specchiamoci l’uno nell’altro senza ipocrisia dicendoci pure “oh ma che dici ”. Entrare in confidenza a volte viene facile, altre è un lavoro di costruzione che però dà senso al nostro essere su questo mondo insieme ad altri.

E se da vecchia diventerò una rompipalle per favore ditelo senza troppi giri di parole.

Consigli letterari per l’estate 2019

Arriviamo in extremis ad unirci al coro dei consigli estivi di lettura. Lo facciamo per non interrompere una piccola tradizione e per amore delle pagine che abbiamo amato. Arricchiamo l’elenco anche con le compere fatte e messe in valigia spiegando perché e per come abbiamo scelto questi libri.

Aspettiamo i vostri consigli, non siate timidi. Buona estate!

 

Pilastri dimenticati o Il Budda delle periferie di Hanif Kureishi

Capita di aver lasciato scivolare via uno di quei libri citati, apprezzati, consigliati ed è sempre una goduria iniziarlo con la quasi certezza che non ci deluderà. Così è stato per me e per le avventure di Karim, mezzo pakistano e mezzo londinese o entrambi o nessuna delle due. E no non ha deluso le aspettative perché racconta quello scollamento, déchirure per gli amici della francofonia letteraria, tra due culture o meglio tra il luogo d’origine della propria famiglia e quello che per i casi della vita sta stampato sul nostro documento. kureishiKarim ha un padre santone che fa della tradizione un feticcio per la sua nuova carriera da motivatore o personal coach mentre ama Eva e ha mollato la moglie a casa, che lo abbia fatto per amore o per un vezzo di rinascita. Karim ama Jamila, amica che non vuole piegarsi a quell’avanzo di tradizione – appunto – che la vuole maritata a un perfetto sconosciuto (poi neanche troppo lontano dai nostri “buoni partiti” o “bravi ragazzi” o “ragazzetti a modo” che dir si voglia) ma lo farà visti gli amorevoli ricatti di cui sono capaci le famiglie d’ogni latitudine. C’è il sesso da scoprire oltre l’ordinarietà, una mirabolante rissa con vibratore e lo sguardo di Karim sui radical annoiati o su un fratello elevato a dio del punk pop ed è questo sguardo il valore del tomo, un giudizio mentre si è giudicati o semplicemente un racconto del mondo nel tantativo di capirlo e capirsi.

 

Nella lista dello Strega, La Straniera di Claudia Durastanti

Il titolo del sacro Camus declinato al femminile poteva suscitare immediata antipatia o, al contrario, curiosità. Ma visto che l’autrice era già stata testata su altri fronti, anche quelli della traduzione, ha prevalso la curiosità. 9204013Ci sono molte “straneità” in queste pagine, quella geografica che divide la protagonista tra la Basilicata, New York e poi Roma e Londra. E quella di un linguaggio di pochi, della sordità di un padre e una madre che non si autorinchiudono nel confine di un’etichetta di mancanza.
L’altro confine del libro è quello di classe, dal quale – a volte – si esce attraverso il lavoro, che oggi spesso sta altrove. C’è un’identità che si crea e una patria che si fa evanescente oppure, anzi, a tratti si fortifica nella lontanza. Scrittura dosata che non eccede mettendo troppa autobiografia; è la storia dell’autrice e della sua famiglia ma riesce a rimanere aperta, accoglibile, universale. Ad essere riuscita anche se vuole essere, anche, un’autobiografia scritta a trent’anni o poco più.

 

È bello guardare le figure, Pigiama computer biscotti di Alberto Madrigal

È un tratto tenero, morbido, quello di Alberto Madrigal che poi quando colora è capace di moderni acquarelli. E tenera è anche la storia di un bambino in arrivo e della croce e delizia della propria passione come lavoro con partita iva, difficoltà, annessi e connessi. Pigiama-computer-biscotti-sito-1L’autore ci pone il dilemma, tutto personale ma anche di una generazione, di chi fa lavori diversi da quelli dei propri padri, alla ricerca di un equilibrio tra soddisfazione, soldi, tempo, futuro. Ma anche dilemmi più morali se così si può dire: quando ci si svende per lavorare? Dove sta il limite? Una bella matassa che però a volte si scioglie meglio di quanto crediamo. È un libro che dà un po’ di calore, di ottimismo, senza diventare la storiella banale con happy ending e frasi da fastidioso motivatore. Ah già le frasi, nei fumetti non ci sono mai parole fasulle, sopratutto il rapporto di coppia è ben realistico, tanto nei suoi affetti quanto nei suoi scazzi.

 

Nella valigia metto…

 

La versione di Barney di Mordecai Richler perché è un feticismo malsano. So che è un bel libro, l’ho comprato e l’ho tenuto scientemente chiuso in attesa di un momento di down letterario in cui sarei voluta andare a colpo sicuro. E forse è arrivato il momento di leggerlo, pensa te se alla fine mi delude.

The Black Album di Hanif Kureishi perché spero di ritrovarci un Karim un po’ cresciuto o qualche suo amico che gli somigli e perché me lo ha consigliato un amico che mi fa ridere.

Nel guscio di Ian Mc Ewan perché regalatomi da un’amica lettrice che raramente sbaglia dono.  È  un thrillerino con la chicca di essere narrato da un bebé nella pancia che nulla vede ma tutto sente. Sarà lui a raccontarci un orribile delitto ma anche come si vive nell’apnea di una placenta tra bicchieri di vino di troppo e genitori che si preannunciano problematici ancor prima di averli visti.

Le signore in nero di Madeleine St John perché volevo leggere una chiacchiera femminile e perché ogni testo ambientato nello scintillio passato di un grande magazino mi ricorda quanto avevo amato Paradiso delle signore di Zola. Ambientato negli anni ’50 promette di tenere compagnia con le storie di quattro donne che si guadagnano la propria indipendenza con il lavoro, come ancora è, come ancor più dovrebbe essere.

Il giro del mondo in 15 reportage perché in un’estate essenzialmente cittadina almeno si pensa a nuove future mete. E perché le belle illustrazioni sono di Vittorio Giacopini, scrittore in fase disegnante.

(Caterina twinstagram-logo@categrignani  )

 

Molto mossi gli altri mari di Francesco Longo

Insolitissimo e direi unico rispetto a quanto letto di recente è questo piccolo notevole cantico dedicato al mare. Tra Roma e Santa Virginia si inseguono i capricci del vento, si moltostudia il giro delle cose celesti osservandole col cannocchiale, si cavalca l’onda salina della tempesta sfidandola con una tavola da surf. Ci si ritrova cambiati, più grandi, con i ragazzi di fuori, che estate dopo estate hanno popolato le ville in cima alla scogliera portando dalla città musiche, mode, modi di parlare, e anche turbamenti e gelosie.
Ci sono amicizie salde e imperscrutabili, come quella del protagonista Michele con Guido, il più bello e ambito del gruppo, che a guardar bene ha più ombre che luci, e c’è in filigrana un bellissimo rapporto padre-figlio, fatto di silenzi e pedalate in bicicletta. C’è l’innamoramento di Michele per Micol, sofisticata e libera, e c’è il sentimento del tempo, che modifica le cose e consuma mobili da giardino, cordame, relazioni. Nonostante la lingua si faccia a volte inaspettatamente aulica il libro innamora, e persiste dopo chiuso con una voce che rumoreggia nella mente, «Micol, Micol».

 

Acqua di mare di Charles Simmons

«C’è qualcosa di meglio dello starsene col corpo in acqua e la mente in cielo?». Secondo me, leggere questo breve romanzo. Nella villa di Bone Point, sull’Atlantico, un ragazzo di 38_Simmons_AcquaDiMare_coverquindici anni, suo padre e sua madre vengono travolti dalla personalità di due ospiti mentre trascorrono le vacanze. Le ospiti, madre e figlia, sono entrambe avvenenti, interessanti, e impossibili da ignorare. Nel rapido giro di 100 pagine ad alto tasso di tensione e di godimento estetico cresciamo, soffriamo e amiamo con l’adolescente Michael, che a un prezzo decisamente alto diventa adulto. Un’opera elegante e feroce che ho letto nella nuova traduzione di Tommaso Pincio per Sur.

 

 

Non è mica la vergine Maria di Feby Indirani

Ritorna l’estate e ritorna l’attenzione di add editore per i racconti esotici e colorati: questa volta ci spostiamo in Indonesia, dove un’autrice impegnata e un poco outsider indirani_WEBdecide di far calare il velo di acquiescenza con cui ancora oggi sono seguiti molti anacronistici precetti dell’islam. In un tourbillon di storie surreali e ironiche, dove buone credenti perdono il naso, animali proibiti vogliono convertirsi alla religione musulmana, e compagne premurose consigliano i mariti di aggiungere una fata al loro harem, Feby Indirani racconta e smaschera tutti gli eccessi del proprio mondo, scegliendo la forma narrativa e un tono lieve e favolistico per sensibilizzare la società. Irriverenti e parodiche, queste storie ci parlano di argomenti seri in maniera comica, avvicinandoci di un piccolo passo a realtà che riguardano tutti.

Rock Lit di Liborio Conca

Compendio che vuole unire in una mappatura del cuore le grandi figure del rock alle loro radici letterarie: come si influenzano rock e letteratura, e, soprattutto, sono così hoppipolla_liborio_rock-litdiversi?In una godibilissima dissertazione che tocca personaggi, luoghi e ispirazioni del rock nominando titoli, dischi e influenze di band e cantautori, con un’attenta documentazione sempre brillante rispetto agli scrittori e alle influenze letterarie, Liborio Conca ci accompagna in un viaggio esperienziale di grande intrattenimento, anche grazie alla moltiplicazione del dialogo attraverso un apparato di note che strizzano l’occhio al lettore. Una vera perla per gli appassionati di musica, da sfogliare sulla sabbia, mentre qualcuno, ai margini del gruppo, si appresta ad accordare la chitarra.

 

Nella valigia metto…

 

La fine dell’estate di Serena Patrignanelli. Si sa che prima o poi finirà. Ho questo libro tra quelli in attesa di essere letti dai primi dell’estate, diciamo da quando l’estate era ancora un accenno, un inizio, un sospetto. Quale momento migliore, per addentrarsi nella storia di due ragazzini e del loro scontro/incontro con la vita vera, che il culmine di agosto? Dell’autrice sappiamo che è una menzione speciale del Calvino 2017, e che questo è il suo romanzo di esordio.

Resoconto di Rachel Cusk. Il New York Times dice di lui: «Rarefatto e intelligente […] Non accade nulla, in questo romanzo, eppure accade di tutto». Oltre ad aver corteggiato questo libro lungamente, so che è un romanzo corale, che è ambientato in Grecia, che ha per protagonista una scrittrice, e che in esso hanno un peso preponderante le conversazioni, i dialoghi, le digressioni, lo spazio del ricordo e l’imperfezione. Inoltre in copertina c’è una ragazza in t-shirt, di spalle contro un orizzonte pastello: non vedo di cos’altro ho bisogno.

La straniera di Claudia Durastanti. Me lo attenziona un’amica scrittrice, lo vedo qui sopra nei consigli di Caterina: dal momento che mi fido del gusto di entrambe mi sembra ovvio che debba leggerlo.

(Teodora  tw @tea_dmn)

Le Visionarie: un’antologia dell’altro mondo

29 racconti che svelano l’universo della fantascienza, del fantasy e del femminismo. Un mondo altro, di traverso e scosso dalla scrittura rivoluzionaria delle donne

Un’antologia di Visionarie che ad ogni latitudine e in tempi diversi hanno raccontato l’utopia di un mondo altro. Donne, scrittrici, menti capaci di immaginare e – nel breve volgere di un racconto – ruotare la nostra prospettiva. Squarciare la pagina sull’altro corso della storia, quello che non è stato ma avrebbe potuto. Il bel tomo di oltre 500 pagine, 29 racconti in tutto, edito da Nero editions casa editrice romana che pubblica dal 2004 (e che ha lanciato ora la neonata collana Not), traduce una raccolta a cura di Ann e Jeff Vandermeer, colonne editoriali della fantascienza oltreoceano. Fondatrice della casa editrice Buzzcity Press la prima, direttrice di Weired Tales – storica rivista di horror e fantastico sulla quale sono stati pubblicati alcuni dei racconti del libro. Autore della Trilogia dell’area X il secondo, un volume ripubblicato da poco da Einaudi e, per i pigri, sì, il film Annientamento che c’è su Netflix è tratto dal lì. Le curatrici italiane sono Claudia Durastanti, che traduce e scrive e il suo ultimo libro è Cleopatra va in prigione edito da Minimum Fax, e Veronica Raimo anche lei traduttrice, scrittrice e sceneggiatrice, ha pubblicato, tra gli altri, Tutte le feste di domani con Rizzoli.

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E se il titolo, Le Visionarie, non lascia dubbio sulle firme che contiene, il sottotitolo – fantascienza, fantasy e femminismo – spiega meglio cosa troveremo dentro. Quando uscì la serie Black Mirror e gli amici cominciavano a tesserne le lodi, mostravo tutta la mia antipatia sottolineando come quelle idee e quelle trame fossero già presenti nelle migliori distopie e fantascienze letterarie, erano tanti gli autori, insomma, che c’erano arrivati prima di Netflix. Una sensazione che si è ripetuta con l’arrivo di altre serie, Il racconto dell’ancella, dal libro omonimo, e poi, dicono, verrà anche Le ragazze elettriche. Tutto sembra nuovo ma sfogliando questo libro ci stupiamo invece di una potenza immaginifica che ha più di qualche anno. Quel mondo di traverso, scosso, attraversato dai fulmini di adolescenti improvvisamente diventate più forti d’ogni macchina da guerra, la società matriarcale che ne deriva, c’era già in He, She and It, oppure in Body of Glass, di Marge Piercy, anno ’91, con un cyborg oltre ogni genere. Nell’antologia, su questi temi si muove I ragazzi  di Carol Emshwiller.

L’altrove è politico. La fantascienza femminile ha origini antiche, pensiamo a Mary Shelley e il suo Frankenstein. Poi con un balzo più lungo di un secolo mettiamo un segnalibro agli anni ’70 quando a questo genere si accompagna il femminismo. Facciamo due nomi, Joanna Russ e Ursula K. Le Guin, scomparsa da poco, che troviamo anche nell’antologia Le Visionarie. Le antologie sono come delle guide, un aiuto per esplorare – intento che i curatori Vandermeer spiegano nell’introduzione che riassume anche, brevemente, decenni, influenze e correnti. E bella è anche la varietà che vi abita. Le parole proibite di Margaret A di L. Timmel Duchamp apre, non a caso il libro. Come a mettere subito in chiaro che, come scrivono Durastanti e Raimo nella postfazione, «qui l’altrove è quasi sempre politico». E poi il titolo originale è Sisters of the Revolution. Questo racconto ruota intorno a parole messe al bando, non conta quali perché è il divieto che le circonda a contare. Non possono ripetersi, registrarsi ed essere ricordate ma l’assenza le rende ancora più dirompenti, rivoluzionarie, capaci di sovvertire con la propria non esistenza.

Dichiaratamente politico è anche La bandita delle palme di Nnedi Okorafor che ribalta il mito o una favola tradizionale (come accade anche in Le cinque figlie della grammatologa di Eleanor Arnason) portando la donna al centro, descrivendo un’eroina che sfida il divieto di arrampicarsi sulle palme per estrarne la linfa: «sai, il vino di palma dà forza alla prima persona che lo tocca e lo beve. Si diceva che le donne non sarebbero state in grado di tenere a freno una tale potenza e sarebbero evaporate, svanite nel nulla». In questi mondi altri spesso la donna è dotata, almeno in potenza, di poteri oltre norma; che sia questo il motivo per cui, nel mondo nostro, combatte per riacquisirne almeno un pezzetto? Così, per fare ipotesi un po’ fantasy.

Un altro tema ricorrente è la maternità, quella in un certo senso scaduta e messa da parte di Le madri di Shark Island di Kit Reed. Qui, nelle celle, ci sono madri che dopo aver messo al mondo i figli sono rinchiuse dai figli stessi, corpi inutili, un potere rinchiuso ma anche un destino di prigionia che non può che ereditarsi. E ancora l’allattamento in Racconti dal seno di Hiromi Goto, una neomadre con suocera al seguito e una valigia di consigli altrui per compiere il sacro rito dell’allattamento con puro dolore. «Naturale non equivale a farselo piacere o a essere brave» sibila rabbiosa la madre.

Ma i racconti sono tanti, la donna pianta di Anne Richter seguito da Gli uomini che vivono negli alberi di Kelly Barnhill, perché i testi non sono in ordine cronologico, si parlano, in una logica dialogica ed intertestuale che fa da eco, lo chiariscono i curatori nella prefazione, a un genere che si guarda molto allo specchio. E poi queste sono solo alcune delle scrittrici, questi sono solo alcuni dei temi, i racconti si fermano agli anni zero ma lo scrivere e il mondo sono ormai andati avanti. L’esortazione è sempre quella -valida per ogni tempo, luogo e dimensione – esplorare nuovi, altri e visionari mondi: «Questa antologia è solo l’inizio di una serie di nuove esplorazioni (…) in un mondo perfetto Le Visionarie verrebbe accompagnato da altri volumi (…) questo è il nostro contributo alla conversazione. Speriamo che intrattenga, provochi delle domande e susciti interessi» (dalla prefazione).

Articolo pubblicato su Roma Italia Lab

Contro le radici, la polenta viene dall’Angola

Maurizio Bettini ha dedicato un saggio ricco di riferimenti ed aneddoti al tema delle radici, una metafora che non è neutra ma carica di significati facili da strumentalizzare. Dall’Eneide ai kebab di Livorno ecco su cosa si fondano le rivendicazioni identitarie

Radice, identità e tradizione: sono parole che oltre ad evocare il romanticismo del racconto passato entrano sempre più nel dibattito politico. La radice radica e in questo è immobile, la radice stabilisce una gerarchia e senso unico con un’importanza che parte dal basso per poi sfumare nei germogli più recenti. E poi una radice che divide segnando un confine, un dentro e un fuori, una collocazione spaziale ad exludendum.

Maurizio Bettini ha dedicato al tema un saggio, godibile e acuto, Contro le radici che ha già qualche anno ma che non è poi troppo invecchiato, se non nei riferimenti alla cronaca politica che cambia nei nomi e meno nei contenuti.

L’autore, professore di Filologia classica all’Università di Siena e direttore del Centro Antropologia del mondo antico e curatore per Einaudi della serie Mythologica, ci accompagna in un viaggio tra storia e antropologia con riferimenti al nostro presente. Il passato si spoglia dei toni nostalgici per diventare il luogo dell’identità di gruppo e la radice diventa la metafora prediletta per tracciare i contorni dell’identità. Ma Bettini ci mette in guardia: «le immagini non sono oggetti neutri». La tradizione, ma quale tradizione? Cosa dimenticare e cosa conservare? La cultura classica tramanda il racconto degli Ateniesi che si recarono a Delfi per chiedere ad Apollo quali riti sacri conservare. Apollo gli disse «quelli conformi al costume degli antenati». Gli Ateniesi tornarono a casa rendendosi conto di non aver poi capito troppo bene l’enigmatica risposta. Così si ripresentano per chiedere lumi, il costume degli antenati era cambiato nel tempo, quale prediligere?

«Il migliore» risponde Apollo smascherando la relatività del concetto stesso di tradizione, il mos maiorum dei romani.

È interessante sottolineare come la scelta dell’immagine della radice riporti ad una dimensione primordiale, vitale e naturale, qualcosa di molto lontano dall’artificio, l’interpretazione e la narrazione che, per forza, qualcosa tiene ed altro esclude. E da un punto di vista gerarchico se spesso è una collocazione alta a conferire autorità, meglio vivere in un attico che in un sottoscala – il piano nobile -, anche la base, il fondamento ha la sua importanza: è dalle solide radici che arriva la linfa ai rami, così “cicciano” le nuove estremità, così i rami si espandono. Ma chi e cosa è la radice, chi è stato il primo, come stabilirlo? L’albero è un’immagine verticale con un inizio e una fine, non ammette innesti, incroci come invece un fiume che, rafforzato dai suoi affluenti, scorre e muta nel suo avanzare. Un affluente vive anche di vita propria mentre un giovane ramo se si discosta dalla radice muore di fame. E ancora Bettin aggiunge: «l’immagine delle radici contiene in sé il sogno della autochtonìa, come la chiamavano i Greci: la pretesa di essere gli unici veri figli di una certa terra e per questo superiori a quelli che vi sono semplicemente sopraggiunti». Chi era un vero greco, romano e chi è oggi un vero italiano? Epoche diverse, stesse domande, negli ultimi tempi ritornate prepotenti in tema di Ius soli.

Bettini sfrutta la sua esperienza di docente per un esempio semplice ed efficace: durante una lezione universitaria di latino ha chiesto il significato della parola tabernacolo – presente in un testo da tradurre – solo tre alunni su quarantatré avevano una vaga idea del significato (l’edicola contente l’eucarestia, normalmente posizionata al centro dell’altare delle chiese cattoliche). Questo aneddoto serve a spiegare come la forza di una tradizione non viene dal suo appartenere al passato, quanto piuttosto dal suo essere viva, raccontata, praticata e tramandata. O in altre parole la consuetudine. Meno messe in chiesa con i genitori, meno persone che sanno cosa sia un tabernacolo, e però tanti che inorridiscono se si ipotizza di costruire una moschea.

È nell’Eneide che troviamo un esempio o meglio un paradigma antropologico: alla fine del poema Giunone e Giove si incontrano per definire le condizioni della resa, si accordano insomma per tracciare l’identikit della nuova gente che nascerà dalla fusione di Latini e Troiani. Giunone vuole che sia mantenuto il nome del Latini, la lingua, l’abbigliamento. Giove accetta e anzi le assicura che anche il viso, le fattezze fisiche, saranno quelle latine. Una promessa che anticipa teorie e selezioni di un drammatico futuro. Ma ciò che conta, e che l’autore sottolinea, è che la tradizione sia molto anche una questione di decisioni ed altrettante recisioni (che se le fanno gli dei è un conto, con gli uomini la faccenda si fa pericolosa). Le pagine snocciolano esempi ad ogni latitudine, dagli Hutu e Tutsi e la loro etnicizzazione a firma belga, fino ai kebab di Livorno per spiegare come la sovrapposizione tra memoria privata, che porta con sé una inevitabile nostalgia, e collettiva sia un rischio facile da strumentalizzare da certa politica (e ancor più in tempo di crisi). Un testo ricco, pieno di rimandi e aneddoti, una lettura per approfondire capire – e anche saper smontare – le teorie dei movimenti identitari. La prossima volta che un leghista esalta la polenta, piatto tradizionale d’oltre Po, potete raccontare per esempio che quella radice culinaria arriva dall’Africa: è un’eredità da condividere con gli Angolani portati poi da schiavi fino in Brasile.

Articolo pubblicato il 23 gennaio 2018 su Roma Italia Lab

Meglio tardi che mai

Prima di far passare proprio un anno tondo tondo dall’ultimo articolo pubblicato su questo caro vecchio blog, ho deciso di ritornare a nutrirlo con quei pezzi che voglio conservare e condividere con voi. A presto

Caterina

 

Le storie nascoste – o inventate – del Premio Zavattini: così la memoria si scrolla la polvere di dosso


za_ripresa_gruppPer tramandare un ricordo è necessario raccontarlo, la memoria si fa narrazione e attraverso la voce – o nuovi occhi che la guardano – vive e cambia. Mia nonna mi ha raccontato “le sue storie della guerra” e io non sono mai sicura che riuscirò a ricordarle in modo preciso per ripeterle. Ma forse è così che il ricordo deve vivere, seguendo strade sconnesse e inciampando nei buchi della dimenticanza. La rimembranza ingessata d’altronde ci annoia. In questa direzione va il Premio Zavattini, un’energica soffiata sulle tracce impolverate del passato. Da pochi giorni è online il bando per il 2017 che resterà aperto fino al 20 maggio e che consentirà a filmaker professionisti e non di scavare nell’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico. Un “tesoro” di 1 mila filmati, 2mila audio, 15mila carte e 200mila fotografie.

Antonio Medici, direttore artistico del premio, spiega che l’intento è proprio quello di diffondere il patrimonio filmico dell’Aamod sfruttando le potenzialità del web. Ai giovani partecipanti selezionati viene data la possibilità di attingere dall’archivio (una parte dei filmati è caricata sul loro canale YouTube) e di inventare nuove narrazioni.

«Promuoviamo un riuso narrativo e creativo – ci spiega Medici – anche perché questi materiali, e la scena internazionale ce lo dimostra, escono sempre più dal confine del documentario storico per arrivare nei musei o nelle gallerie d’arte, nei film di finzione. Assistiamo a un riciclo che è certamente positivo».

Le maglie larghe del bando consentono di sperimentare: alcuni progetti sono ancorati al territorio e ricercano un’identità magari un po’ sbiadita dal tempo, altri sono liberi e quasi irriverenti, smontano e rimontano il materiale dando vita addirittura a un filmato di fantascienza e a un personaggio di fantasia.

«I ragazzi venivano qui in archivio e si immergevano in un mondo passato e più cercavano, più scoprivano: la curiosità alimenta altra curiosità, è così che la memoria esce dall’ingessatura della commemorazione e si fa creativa e viva» prosegue il direttore artistico.

Patrizio Partino, tra i partecipanti della scorsa edizione, per esempio non sapeva che Gian maria Volonté aveva realizzato dei cineracconti sul Vietnam con la sua voce narrante o che era stato regista per La tenda in piazza sulle lotte operaie del 1971.

«Volonté lo stimiamo tutti a parole ma poi lo si ricorda raramente – racconta Partino – ho voluto prendere l’attore scomodo e anti sistema e raccontarne il coté politico con Dimenticata militanzaDopo aver visto il materiale su YouTube ho iniziato a cercare materialmente nell’archivio trovando molto più materiale. E poi ho aggiunto altro come l’intervista a Scalzone. Volonté ha portato avanti lotte di ogni tipo, quella contro il doppiaggio per esempio: si era arrabbiato un sacco quando Sergio Leone lo aveva fatto doppiare!».

Alessandro Arfuso, insieme a Riccardo Bolo alla regia, hanno dato vita al progetto più originale Blue Screen: un corto di fantascienza. Alessandro e Riccardo hanno 26 e 31 anni ed entrambi hanno studiato alla Scuola d’arte cinematografica Gian Maria Volontè. La memoria viene qui capovolta e reinventata – come d’altronde spesso accade nella fantascienza o nelle distopie: gli androidi sono stati inventati e sono in ogni casa e la storia è la cronaca di un tentativo fallito di rivoluzione. In questa chiave vengono montati i filmati del Vietnam o delle manifestazioni di piazza italiane.

«Abbiamo iniziato con i filmati disponibili sul canale YouTube e poi ne abbiamo scoperti altri nell’archivio, Io personalmente ho scoperto Ansano Giannarelli, tra i fondatori dell’Aamod, e i suoi documentari che spiccano per tecnica e vivacità» dice Alessandro.

Piero Li Donni è partito da un documentario di Ettore Scola Vorrei che volo, commissionato dal Pci nel 1980 in occasioni di imminenti elezioni comunali. Il partito aveva chiesto un contributo per Napoli, Milano, Roma e Torino e al regista di Una giornata particolare era capitato il capoluogo piemontese.

«Mi volevo confrontare con materiale a colori e costruire una storia su un bambino. La mia intenzione era quella di fare un corto con materiale di archivio ma poi quando ho trovato il nome dell’attore la storia ha preso un’altra piega» spiega Piero che ha 32 anni ed è di Palermo. Il bambino – che nel documentario era simbolo di futuro e speranza – in realtà aveva passato la sua vita in carcere. «Ne è venuto fuori un confronto impietoso tra passato e presente, Massimino (che è anche il titolo del corto) fa parte di una famiglia di malavitosi di cui poi ho letto nell’archivio de La Stampa. E il confronto è anche quello tra un Paese animato da passioni civili e lotte – ieri – e dominato dall’individualismo oggi» prosegue il regista del corto che ha impostato il proprio percorso autoriale sulle città dello stivale.

«L’archivio dell’Aamod è sorprendente perché contiene un pezzo d’Italia e di mondo, non solo lotte sociali ma anche un repertorio più intimo, familiare. Quando ho visto i filmati delle colonie estive degli anni Cinquanta ho pensato che la mia storia dovesse partire da lì»

racconta Carla Oppo, nata e cresciuta sotto il sole della Sardegna e poi approdata a Roma per studiare storia. Il suo corto Fuori Programma è la storia di un bambino / mago, che con una voce ormai matura, vagabonda tra i ricordi: le colonie estive, l’infanzia, le interferenze del mondo adulto nell’universo infantile, e infine il desiderio di ribellione ed evasione. Un resoconto leggero e delicato, in cui i ricordi perdono man mano la loro solidità, si fanno più onirici, liquidi.

«E, cosa più importante, si fanno liberi – prosegue Carla – Io ho voluto marcare questo aspetto, l’idea di liberare le immagini dal loro significato più superficiale. È importante che gli archivi non prendano polvere, non si limitino a conservare, ma a riportare in vita. È un modo per tenere in vita la nostra storia, per arricchirla di nuove interpretazioni. Ed è stupendo, perché allo stesso tempo è la nostra memoria a tenere in vita il cinema. È un legame magico».

I corti saranno presto disponibili sul sito dell’Ammod, intanto si può pensare di realizzarne uno – per la nuova edizione del premio – immergendosi nelle immagini di ieri dell’archivio.

Articolo pubblicato il 1 aprile 2017 su Roma Italia Lab

“Rapita per i miei tatuaggi”. La storia di Evelyn e delle donne del Triangolo del Norte

Il giorno che mi hanno deportato in Honduras è iniziato un incubo, a causa dei miei tatuaggi. Li avevo fatti negli Stati Uniti ma in centro America infastidivano i pandilleros”. Evelyn ha 27 anni ed ora che ha ottenuto la protezione complementare in Messico (una protezione prevista per chi non può tornare nel proprio Paese), con l’assistenza dell’Unhcr, vuole raccontare come la violenza delle maras – i gruppi armati legati al narcotraffico e alla criminalità – possa essere arbitraria e non lasciare altra possibilità che la fuga.

4df760516Ci parla da una fattoria messicana, la giornata di lavoro deve ancora iniziare, lei lavorerà ma senza esagerare perché è incinta della terza figlia. Evelyn è partita per gli Stati Uniti giovanissima e vi è rimasta dieci anni, un lungo periodo di vita clandestina in cui si guadagnava da vivere tra ristoranti e fattorie. Ed è in territorio Usa che si è fatta numerosi tatuaggi perché le piacevano e perché lì era la moda: fiori colorati sulle spalle e sui fianchi e i nomi delle sue bambine. Ma un giorno una collega la denuncia, sa che Evelyn non ha i documenti in regola e le fa pagare una lite con una telefonata alla polizia che la porterà in un centro di detenzione per migranti. “Non saprei dire quanto ci sono rimasta, mi hanno liberato perché avevo una bambina a carico” racconta Evelyn. Poi alla scarcerazione è seguito la deportazione in Honduras, il Paese dove era nata. L’Honduras è al primo posto, nel mondo, per il numero di omicidi: 57,3 persone ogni 100mila abitanti muoiono di morte violenta. La media nel resto del pianeta è 6,2. La ragazza era ospite della sorella a San Pedro Sula, non lontano dal confine guatemalteco, ma dopo soli cinque giorni è stata rapita. “Ero in un negozio, sono arrivati due uomini, mi hanno sollevato e caricato su una macchina, all’inizio non capivo, mi tempestavano di domande sui miei tatuaggi”. Le maras del Centro America – le più importanti sono la Pandilla Barrio 18 e la Mara Savatrucha MS 13 – usano i tatuaggi come segno distintivo e di appartenenza, ogni disegno ha un significato legato all’iniziazione o alle attività criminali e i capi possono tatuarsi anche il volto. “I miei tatuaggi li disorientavano, alcuni avevano colori appartenenti a maras nemiche, ad un certo punto hanno pensato che fossi la donna di più capi allo stesso momento”. Durante il sequestro Evelyn ha subito diverse forme di violenza che non vuole ricordare, “continuavano a chiedermi il significato dei miei tatuaggi e mi ripetevano: ‘possibile che nessuno ti abbia spiegato che non puoi avere questi colori insieme?’”. Poi è stata liberata: “non so perché, se io li abbia convinti delle mia totale estraneità da quel mondo, se lo abbia voluto Dio o se li ho impietositi parlandogli delle mie bambine”.

La storia di Evelyn racconta la fuga che sempre più donne centroamericane affrontano per sottrarsi alla violenza: nel 2015 le organizzazioni stimano quasi 76.000 deportazioni tra uomini, donne e minori in Honduras, 50.000 donne se si prendono in considerazione i tre paesi del “Triangolo del Norte”. Da Salvador, Guatemale e Honduras infatti, le domande di asilo verso gli Stati Uniti nel 2014 hanno oltrepassato le 40.000 ma la protezione viene chiesta anche in Messico e nei Paesi vicini: dal 2008 ad oggi il numero di richieste nei Paesi confinanti si è moltiplicato per tredici. “Women on the run”, un report a cura dell’Unhcr, riporta le esperienze delle donne in fuga, la loro sfiducia nelle forze dell’ordine, le minacce che le seguono anche se cambiano provincia di residenza e la violenza fisica e psicologica. Sono spesso le stesse maras a imporre la scelta: o la morte o la fuga e così nel giro di poche ore si scompare spesso insieme ai propri bambini. Si diventa l’obiettivo dei pandilleros per ragioni diverse: una donna può essere desiderata da uno dei componenti, i giovanissimi vengono scelti come reclute, informatori o tuttofare a partire dai sei anni. E se non vogliono unirsi vivranno costantemente minacciati. Come accade ai negozianti, agli autisti di autobus e a chiunque abbia un’attività, la pandilla reclama la “cuota”, il pizzo, e se non si paga si viene perseguitati, spesso i propri cari vengono uccisi come forma di punizione. La “tassa di guerra” è un’estorisione che colpisce tutti: le donne che vendono tortillas di mais per strada, i tassisti e chi ha parenti negli Stati Uniti che inviano denaro a casa, le maras lo sanno e pretendono la loro parte.

Evelyn sta avviando la procedura per ricongiungersi con la sua prima figlia che vive ancora in Honduras e conclude il suo racconto con un appello: “Cercate aiuto, nei rifugi vicino ai confini ci sono cartelli con nomi di associazioni e numeri di telefono, chiamate e non rimante in silenzio perché uscire da quell’inferno ed essere protette è un vostro diritto”.

Pubblicato il 24 maggio su Repubblica.it

 

Per ogni muro una porta aperta

Mentre gli Stati chiudono le frontiere la società civile europea si organizza per aiutare i migranti: dalla giungla di Calais, al Baobab di Roma ecco chi sono gli eroi silenziosi
della solidarietà

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L’Europa ha due velocità ma anche due cuori: quello della politica che deve identificare, regolamentare, stanziare e limitare. E quello solidale del cittadino che può permettersi di agire subito, spesso con fantasia, irruenza e un po’ di illusione per aiutare i migranti. La solidarietà della società civile fa da contrappunto ai muri costruiti sui confini, alla chiusura delle frontiere ed anche al disaccordo e ai passi lenti delle decisioni politiche. Mentre il Consiglio d’Europa è riunito a Bruxelles, ieri il “contro vertice” dei Paesi balcanici ha decretato una riduzione dell’accoglienza. Nella quotidianità però le iniziative si moltiplicano e, davanti al bisogno, il cittadino abbatte – almeno idealmente – il muro difensivo.   Calais_04.jpg

Lunedì all’aeroporto di Fiumicino arriveranno 93 persone, di cui 41 minori, grazie al corridoi umanitario aperto dalla Federazione delle chiese evangeliche insieme a Sant’Egidio e Tavola valdese. Una soluzione voluta e cercata dalla società civile sull’onda della sofferenza per il naufragio del 3 ottobre 2013. “Da quel giorno con i nostri responsabili di migrazione abbiamo cercato un buco, una maglia nella normativa che ci consentisse di far arrivare le persona in Italia, in aereo, in modo sicuro senza rischiare la vita in mare e senza arricchire i trafficanti. E l’abbiamo trovata proprio nel codice di regolamento di Schengen” spiega Gaëlle Courtens portavece della Federazione evangelica. Un lungo lavoro di mediazione e pressione con i ministeri degli Affari Esteri e degli interni per arrivare a un protocollo per mille arrivi. “È poco se pensiamo che mille persone arrivano – di questi tempi – a Lesbo in un solo giorno” prosegue Courtens. Sul posto, in Libano, lì dove fuggono i siriani c’è un’équipe che valuta chi far partire. Il 4 febbraio grazie ad uno di questi voli è arrivata Faka, siriana di 7 anni, malata di tumore. Con lei la sua famiglia: “Adesso gli Al Hourani vivono qui, la bimba è sottoposta a chemioterapia e il fratellino ha iniziato l’asilo” racconta la portavoce.

 

12004920_882154238527996_3662359363302758008_nIntanto a Calais, il porto francese che affaccia sul “english dream” di molti migranti, il tribunale di Lille ha deciso per uno “sgombero progressivo” della cosiddetta giungla, l’accampamento spontaneo sorto nel 2009 e popolato da chi attende e spera di partire. Anche qui, tra le tende e il fango, è arrivata la solidarietà: una pensionata inglese, soprannominata la pifferaia, supervisiona l’arrivo di stivali e generi di conforto. Sono gli “avanzi” del Festival di Glastonbury: sacchi a pelo, tende e scarpe abbandonate dai festaioli arrivano a Calais insieme a un gruppo di circa dieci persone che dal lavoro al Festival è passata al lavoro nella “giungla”. «Anche al Glastonbury dobbiamo continuamente risolvere imprevisti» spiega uno dei volontari all’Independent «tanto vale continuare a risolverli anche qui dove ce n’è bisogno».

E poi sono arrivati Juliette Binoche e Jude Law, attori famosi ma pur sempre semplici cittadini, a leggere la lettera che – a parere loro – il sindaco di Calais avrebbe dovuto scrivere. In sintesi dicevano che non saranno questi 5.000 disperati che vivono nel fango a distruggere le nostre società. Ma intanto il Belgio ha chiuso il confine con la Francia temendo un picco d’arrivi.

“Le persone che ci hanno aiutato e che ci offrono quotidianamente una mano sono tantissime, almeno duemila ma è una stima al ribasso” spiega Francesca Del Giudice, volontaria del Baobab. A portare il nome dell’albero africano è un centro culturale di Via Cupa, a Roma. A maggio 2015 quando fu sgomberato l’accampamento di Ponte Mammolo i migranti si riversarono là. E i romani risposero alla richiesta di aiuto: davanti al Baobab c’era la fila di chi portava una busta piena di spesa o vestiti. Non c’era più spazio per immagazzinare le cose. Poi, a dicembre il centro è stato chiuso “e adesso aspettiamo una nuova sede, ci hanno proposto una sede lontana dai punti critici – le due stazioni della capitale – e per ora andiamo avanti con un camper, fermo in via Cupa: è un info point e un posto dove i migranti trovano generi di prima necessità” spiega Francesca Del Giudice che racconta e misura una forza enorme in termini di volontari e volontà di impegno. “Il Comune ci dia gli strumenti adeguati” ripete la giovane volontaria.  

 

Gli esempi di accoglienza attraversano l’Italia e l’Europa, in Danimarca come a Padova signore in pensione si dedicano a nuovi nipotini venuti da lontano. Le grandi città, capaci di indifferenza (un’inchiesta dell’Espresso ha raccontato la vita dei minori migranti in un cunicolo della stazione Termini tra fame e sfruttamento sessuale) riescono anche a mobilitarsi in tempi record: a Milano, durante l’arrivo massiccio di siriani del giugno 2015 la staffetta solidale non aveva mai lasciato sole le famiglie accampate alla Stazione centrale. E nei piccoli centri la storia non cambia, a Sutera in provincia di Caltanissetta, il sindaco Giuseppe Grizzanti racconta come il suo paese di 1.500 anime riservi 30 posti, nelle case, ai migranti. “Con Rabato (il borgo storico di Sutera) incontra il mondo abbiamo fatto uno scambio culinario tra piatti siciliani e quelli delle persone accolte” spiega il sindaco. I migranti vanno e vengono, ruotano, ma c’è anche chi decide di rimanere: “Un ragazzo palestinese era arrivato qui con la famiglia che poi è andata in Germania, lui è rimasto qui per finire la scuola ed è praticamente stato adottato dalla cooperativa” prosegue il primo cittadino di Sutera.

 

E mentre nelle sale italiane esce Fuocoammare, sembra di riascoltare le parole dei pescatori siciliani – quando all’epoca dei primi sbarchi spiegavano che la prima regola di chi va per mare è che “tra le onde non si lascia nessuno” – in quelle di Emilia Kamvisi, 85 enne greca di Lesbo. Quando l’anziana ha saputo di essere candidata al Nobel per aver dato il biberon e cullato un piccolo siriano appena sbarcato sulle coste di casa sua ha detto: “Ma non ho fatto niente”.

Pubblicato su Repubblica Sera il 25 febbraio